Un padre negli anni di piombo. Un premio vinto per quel padre all’ultima Mostra del cinema di Venezia. E le parole pronunciate durante la cerimonia: «Un grande maestro diceva che i film sono come le stelle. Io dedico questo riconoscimento a tutte le stelle che ancora nasceranno, e al brillare degli occhi nel buio». Adesso sono gli occhi di noi spettatori a brillare vedendo Pierfrancesco Favino al cinema in Padrenostro. Se però gli si fa notare che – dopo questa Coppa Volpi che va ad aggiungersi a 3 Nastri d’argento e 4 David di Donatello (solo per citare qualche premio) – a 51 anni non è più solo un bravo interprete ma rientra nella categoria degli attori cult, lui sdrammatizza: «Penso che nella vita arrivi un momento in cui quello che si fa è veramente quello che si è».
Padrenostro, che lo vede anche nelle vesti di produttore, è ispirato a una vicenda accaduta alla famiglia del regista Claudio Noce. Siamo nel 1976, Valerio (Mattia Garaci) è un bambino di 10 anni la cui esistenza viene sconvolta da un attentato terroristico al padre (Favino). Da lì in avanti la paura domina la sua vita, rafforzando la sua già sviluppata immaginazione. Finché non arriva Christian (Francesco Gheghi), poco più grande di lui, a fargli compagnia.
Cosa significa questo film per te? «Riguarda la mia infanzia. Parla di padri che conosco: il mio e quello del regista appartengono alla stessa generazione, a loro era complicato parlare direttamente».
Chi eri tu a 10 anni? «Un bambino che andava a dormire dopo il Carosello e che dal suo letto sentiva parlare i propri genitori senza che loro lo sapessero. Quel tipo di famiglia, come la mia, decideva che non dovevi avere le preoccupazioni dei grandi, ma tu per quanto piccolo sentivi che quella preoccupazione era presente. E provavi una sottile angoscia».
Nei panni del padre, insegni a tuo figlio a respirare quando sale il senso di affanno. «È un momento che mi ha emozionato molto, una connessione strana, improvvisa».
Mozart diceva che per ogni bambino, subito dopo Dio, viene il papà. Cosa ti ha insegnato il tuo, che non c’è più? «Un forte senso di onestà, di trasparenza. Credo molto nel lavoro e credo nel merito. E poi credo negli altri. La porta di casa mia era sempre aperta: mio padre non si tirava mai indietro se c’era da aiutare qualcuno. I miei hanno cuore, sono persone generose, mi hanno trasmesso questi valori».
Il pubblico ti adora: ne hai la percezione? «Credo che le cose siano cambiate quando sono stato al Festival di Sanremo nel 2018 come co-conduttore. Allora le persone hanno detto: “Ah, quindi questo è un uomo…”» (sorride, e il pensiero va all’emozionante monologo sugli stranieri in patria, tratto da La notte poco prima della foresta di Bernard-Marie Koltès, che commosse l’Ariston e il pubblico a casa, ndr).
Anche se sdrammatizzi, qualcosa dev’essere cambiato, a un certo punto: cosa ha fatto questa differenza? «È arrivato un momento in cui mi sono detto: “Ma perché non posso essere me stesso? Perché non devo poter pensare che la mia visione sia valida quanto quella di un altro?”. Certo, prima ho dovuto maturare fino in fondo quello che penso e sento davvero».
Avverti il peso della responsabilità? «Nella posizione che ho, se parlo devo dire qualcosa di sensato, ma anche qualcosa che mi rappresenti. È questo il pubblico lo sente, magari sbagli su qualcosa, ma non lo fai per calcolo».
Lea, la tua figlia più piccola, di 8 anni, appare nel film con te. Hai segnato la sua strada? «No, credo di aver segnato piuttosto un ricordo insieme. Mi ha detto che si è divertita, che è stata bene, penso che lo prenda come un gioco. Poi si vedrà, chi sono io per impedirle qualcosa? Lei e Greta, che ha 14 anni, sono la cosa più importante che abbia fatto nella vita. Le mie energie sono tutte per loro».