“Corro da te“, il film con Pierfrancesco Favino e Miriam Leone
Si guardano attraverso il finestrino dell’auto. Lei fa un cenno di saluto con la testa, lui sfodera lo sguardo sornione e il sorriso piacione di chi è abituato a conquistare tutte le donne che vuole. L’inquadratura indugia, primissimo piano: e, secondo dopo secondo, vediamo quel sorriso che si spegne, quello sguardo che si fa sbigottito. Solo poi scopriamo perché. Lei è scesa dalla macchina, bellissima, ma non è da sola. Con sé ha la sua sedia a rotelle.
L’intervista con Pierfrancesco Favino inizia da questa scena, una di quelle che più mi hanno colpito nel nuovo film di cui è protagonista: Corro da te, al cinema dal 17 marzo. Lei è Chiara (Miriam Leone), violinista di talento che ha perso l’uso delle gambe in un incidente. Lui è Gianni (Pierfrancesco Favino), il classico maschio alfa: imprenditore di successo, maratoneta super allenato e seduttore seriale, si ritrova per un equivoco a fingere di non poter camminare e, in un afflato di boria, scommette con gli amici che riuscirà a portarsi a letto Chiara. Pur essendo entrambi in sedia a rotelle.
«Perché il loro primo incontro l’ha colpita?» mi chiede Pierfrancesco Favino. Non mi era mai capitato che un intervistato mi intervistasse a sua volta. Gli rispondo, e da qui continua il nostro dialogo sul cinema e la vita. Amori e paure. Noi e gli altri.
Intervista a Pierfrancesco Favino
Nello sguardo di Gianni, il suo personaggio, vedo l’imbarazzo che spesso abbiamo davanti a una persona con disabilità.
«Credo che, per noi cosiddetti abili, la disabilità sia uno specchio. Lo specchio delle nostre paure. Per quanto oggi si parli di inclusione, tendiamo ancora a nasconderla, a rimuoverla. Perché contraddice il culto della performance su cui si basa la nostra società. Non a caso celebriamo come eroi gli atleti paralimpici: esaltarne il talento è un modo per rendere accettabile, a noi, la loro disabilità. Ma, in fondo, è anche un modo per cancellarla».
Un po’ lo è anche comportarsi come se non esistesse… La seconda volta che vede Gianni, Chiara dice: «Non sopporto quello sguardo di compassione quando fanno finta che tra me e loro non ci siano differenze. Ma ci sono. Non siamo uguali».
«Se c’è una cosa che ho imparato dalle persone con disabilità che ho incontrato – per Corro da te, ma anche per un altro mio film del 1996, si intitolava Correre contro, e prima ancora durante il servizio civile da ragazzo – è questa. La disabilità non è una malattia né una qualità, è una condizione che non rappresenta altro che se stessa. Cosa definisce chi sono io? La mia origine, il colore della mia pelle, il mio lavoro, le mie emozioni. E anche – non solo ma anche – la mia disabilità. Fingere che non ci sia è offensivo, vuol dire negare l’identità delle persone che hai di fronte. E parlare loro, e di loro, con un vocabolario pietistico è fuorviante tanto quanto usare i toni eroici a cui facevo riferimento prima: significa schiacciarle all’interno di categorie. Invece, come ci ha ricordato Drusilla Foer a Sanremo, ognuno di noi è una unicità».
La disabilità non è una malattia né una qualità, è una condizione che non rappresenta altro che se stessa. FINGERE che non esista vuol dire NEGARE l’identità di chi abbiamo di fronte.
Sui social c’è chi sostiene sarebbe stato più giusto far interpretare Chiara non a Miriam Leone ma a un’attrice davvero in sedia a rotelle.
«Seguendo questo ragionamento non ci sarebbe stato Rain man perché Dustin Hoffman non ha l’autismo, né Il mio piede sinistro perché Daniel Day-Lewis non è affetto da paralisi cerebrale. E nemmeno La vita è bella perché Roberto Benigni non è ebreo… Le battaglie per affermare i diritti di tutti sono sacrosante, non mi fraintenda. Ma, parlo dal mio punto di vista di attore, a volte temo che l’eccesso di politically correct rischi di mettere paletti alla libertà artistica. L’arte esiste per farci vedere ciò che non c’è, per allargare i nostri orizzonti. In questo senso, sono felice che Corro da te affronti un tema importante come la disabilità con i toni lievi della commedia. Ce lo ha insegnato Italo Calvino: la leggerezza non è superficialità».
Commedia alla quale torna dopo ruoli drammatici come quelli di Il traditore, Hammamet, Padrenostro. Però interpreta l’uomo da cui stare alla larga: il mascalzone con licenza di sedurre.
«E, le dirò, mi sono molto divertito a farlo… Il culto della forma fisica, l’esibizione del successo, il mito della performace: del catalogo del narcisista non manca nulla. Gianni ne è portatore, ma anche un po’ vittima. E non lo è solo lui. Gli uomini così esistono. Lei non ne conosce?».
Sì, ma cerco di evitarli.
«A discolpa di Gianni dico, però, che pure il migliore di noi non è un santo. A 52 anni io non ho ancora avuto la crisi di mezza età che lui teme tanto, ma sono stato preso dalla furia della seduzione… Nel secolo scorso!».
Anche lei ha attraversato mezza Italia per fare una sorpresa a una donna?
«Sarebbe bello dire: “No, io no”. In realtà chi non si è affidato, almeno una volta, al mazzo di cento rose o alla cena super romantica? Gianni vi fa ricorso in maniera sistematica, quasi criminale, però tutti proviamo a mostrare il nostro lato migliore nella seduzione. Peccato che quando, da giovane, volevo stupire con un colpo di teatro non avessi i soldi…».
Ha pure finto di essere chi non era?
«Hai voglia! Ho detto di essere parente di persone influenti, di avere chissà quali proprietà… Una volta ho millantato di non essere italiano, c’era questa ragazza americana che mi piaceva e ho approfittato del fatto di sapere l’inglese… Ma, sa, credo che alla fine siano tutti modi per superare le proprie insicurezze. Per non rispondere alla domanda che ci fa più paura: piacerò così come sono?».
Mi fa tornare in mente un’altra battuta del film: «Prova a conquistare una donna per quello che sei veramente».
«Be’, io ho conosciuto Anna (Anna Ferzetti, attrice, sua compagna dal 2003, ndr) mostrando non proprio il lato migliore di me. Eravamo a una festa, lei ballava con una sua amica, io con un mio amico. E le ho pestato un piede. Così ci siamo accorti l’uno dell’altra».
E?
«Abbiamo iniziato a ballare insieme e da allora non abbiamo mai smesso: è una delle cose che più ci piace fare».
Non ero pronto a innamorarmi. La storia con Anna è andata avanti a lungo come se potesse FINIRE da un momento all’altro… E sono passati più di 18 anni. Forse per questo FUNZIONA: ci sorprendiamo ogni giorno.
Era pronto a innamorarsi?
«Sinceramente no, in quel momento non pensavo che avrei avuto una relazione. Ma credo che succeda sempre così. Insegui a lungo l’idea dell’amore che ti sei costruito, poi ti capitano incontri che mai avresti pensato potessero essere ciò che diventano. Me ne sono reso conto molto tempo dopo aver conosciuto Anna. La nostra storia è andata avanti per parecchio come se potesse finire da un momento all’altro… E sono passati più di 18 anni. Forse è questo che la fa funzionare: ci sorprendiamo ogni giorno».
Avete 2 figlie, di 16 e 9 anni. Se domani incontrassero un ragazzo “alla Gianni”?
«Mi sembra un po’ presto…».
Papà geloso delle figlie femmine?
«No, non credo di essere quel tipo di padre. Credo che il mio compito sia essere presente ma silente. Sono geloso della felicità delle mie figlie, questo sì. Il primo amore influenza il nostro curriculum emotivo, ce lo portiamo dietro per tutta la vita: spero che per loro sia un momento bello. Io non potrò fare altro che essere qui, ad ascoltarle. Comunque per adesso Gianni non ha ancora citofonato!».