Capelli biondissimi, aria stralunata e una nuvola di insetti che lo insegue come fosse fatto di miele. Così appare Pietro Castellitto, nel ruolo di Cencio, in Freaks Out di Gabriele Mainetti, in sala dal 28 ottobre. È la fiabesca storia di un gruppo di diversi – lui, una ragazza elettrica, un nano, un uomo-lupo dal volto peloso – che nella Roma del 1943 occupata dai nazisti lavorano come fenomeni da baraccone in un circo. Cencio, il suo personaggio“freak”, calza come un guanto a Pietro. Forse perché anche lui è un originale.
Figlio dell’attore e regista Sergio Castellitto e della scrittrice Margaret Mazzantini, Pietro Castellitto si è smarcato dall’ombra familiare seguendo un percorso tutt’altro che canonico. A 21 anni si è defilato per puntare sullo studio e sulla scrittura ma, dopo la laurea in Filosofia, ha gettato il cuore oltre l’ostacolo debuttando come autore e interprete di I predatori, graffiante ritratto della borghesia romana, e vincendo il premio Orizzonti per la migliore sceneggiatura alla Mostra del Cinema di Venezia.
Poi è diventato il Francesco Totti della serie Sky Speravo de morì prima e ora, alla vigilia dei 30 anni (a dicembre), si regala anche il debutto letterario: Gli iperborei (Bompiani) è la storia di un gruppo di 20-30enni dalla vita tanto dorata e festaiola quanto insoddisfacente.
Pietro Castellitto parla di cinema e scrittura con passione, e grande cura per le parole. «Quando sei diverso dagli altri tendi ad affrontare la vita in maniera originale» dice dei protagonisti di Freaks Out (e forse anche di sé). «Cencio è poetico, ironico, un po’ mitomane e facile alle illusioni, ma ha un rapporto puro con le persone e il mondo».
Che effetto ti ha fatto vederti biondo tra sciami di insetti?
«Ho avuto davvero uno scorpione sulla faccia ma gli insetti ho dovuto per lo più immaginarli, perché aggiunti con gli effetti digitali. Ho passato oltre un anno con le sopracciglia bionde e parte dei capelli decolorati, per rendere più realistica la parrucca albina. Sembravo un sopravvissuto a un incendio. Ma sono felice e grato di aver preso parte a quella combustione».
Dopo l’esperienza di Freaks Out hai girato il tuo film, I predatori, uscito l’anno scorso. Hai avuto coraggio a debuttare come autore, attore e regista. Nessun timore del giudizio o del confronto con tuo padre?
«Forse sono coraggioso perché la paura del rimpianto è più grande di quella del fallimento. Sono anche più timido e ponderato di quanto possa sembrare, non mi butto alla cieca. A 20 anni tutto sembra possibile, poi capisci che per fare bene qualcosa devi avere la forza di aspettare».
«La gioventù non sta nell’età anagrafica, ma nel bruciare le tappe, nel vedere oltre. sei giovane se sei un visionario»
Studiare filosofia ti ha aiutato?
«Mi è servito per allontanarmi dal cinema (a 19 anni aveva recitato in È nata una star? di Lucio Pellegrini e Venuto al mondo del padre Sergio, ndr) e tornare con una consapevolezza diversa. Il distacco è sano. Per fortuna ho avuto quei dubbi e quell’incoscienza da giovane».
Parli come se non lo fossi più: effetto dei 30 anni in arrivo?
«Forse è perché ho passato anni a scrivere facendo un lavoro interiore, mi sono sfondato di fatica e anche illuso di restare sempre giovane. Oggi penso che la gioventù stia nel rapporto con la nostra epoca. Nel bruciare le tappe, nel vedere oltre. Nietzsche scrisse L’anticristo a 50 anni anticipando la crisi dell’Occidente: sei giovane se sei un visionario».
Citi il filosofo sia nel tuo film sia nel romanzo.
«È la prima volta che lo cito io, per favore scrivilo: di solito me lo infilano nel discorso e sembra che io parli solo di Nietzsche… Gli iperborei, di cui scrisse anche il filosofo tedesco, sono un popolo mitologico dell’antica Grecia: persone forti e belle che, quando erano stanche della vita, si gettavano da una rupe in mare. E il mio romanzo parla di una generazione che brulica ma è come se non fosse mai esistita, di ragazzi la cui ferocia nasce dalla voglia di scappare dai valori progressisti in cui sono cresciuti, sentiti come imposizione. Anche se a 30 anni torneranno proprio lì».
Qualche riferimento al tuo ambiente?
«La mia famiglia c’entra poco, è più un certo tipo di società che mi ha ispirato».
Hai dedicato il romanzo ai tuoi fratelli, citi nei ringraziamenti gli zii che ti hanno “amato come un figlio”, tuo padre che “ha educato questa scimmia a non sprecare la vita”.
«In Maria, Anna e Cesare vedo la creatività e anche una parte di me, i disagi che ho cercato di superare con fatica. Zia Teresa e zio Alfredo mi hanno insegnato, insieme ai miei genitori, che l’amore può mostrarsi in varie forme. E parlo di educazione della “scimmia” perché per anni sono stato molto vivace e casinista, chi vedeva in me il talento ripeteva come un mantra: “Perché sprechi le tue possibilità?”. Perfino nel tennis. Il “casinismo” offuscava il resto».
Definisci tua madre “la persona più intelligente” che conosci. È un punto di riferimento anche per la scrittura?
«Se cerco un giudizio su qualcosa o qualcuno, il banco di prova ultimo è lei. L’osservazione è un vizio di famiglia. Ho una zia che rischia ogni volta di essere menata per strada, perché a Roma ti dicono subito: “Che te guardi?”. Però è osservando che accumuli materia narrativa: anche una cena al ristorante può ispirarti a recitare o a scrivere meglio».
Da casinista, come hai trovato la pazienza per scrivere?
«Sono i sentimenti che vincono su tutto, la tua intimità in cerca di una relazione con gli altri. Quando provi dolore tendi a scrivere, ma per farlo bene devi anche saper trasformare il dolore in gioia. Trovare un po’ di euforia e di serenità interiore, pur sapendo che la sofferenza ritorna».