Se rispetti tutte le regole, ti perdi tutto il divertimento» diceva Katharine Hepburn. Chissà cosa penserebbe dei nuovi canoni di Hollywood, lei che era la più contemporanea delle dive della Golden Age. Magari le abbraccerebbe a piene mani, convinta che sia proprio questa la modernità; oppure le considererebbe un passo indietro, qualcosa che – appunto – toglie il gusto del cinema.
Le nuove norme si applicano a trama, cast e troupe
Procediamo con ordine. Forse avete letto che, per concorrere agli Oscar come miglior film, dal 2024 bisognerà attenersi a nuovi criteri: le “regole dell’inclusione”, come le ha ribattezzate qualcuno. Il primo blocco di prescrizioni – lo Standard A – riguarda il cast e la storia dell’opera in questione: almeno un attore di uno dei gruppi etnici meno rappresentati sullo schermo deve vestire uno dei ruoli principali; il soggetto deve avere al centro donne, personaggi Lgbtq, minoranze razziali o disabili (il fatto che queste categorie vengano parificate potrebbe aprire un dibattito a sé); il 30% del cast deve essere composto da almeno 2 delle categorie sopra elencate.
Vi siete persi? Adesso arriva pure lo Standard B, che riguarda i reparti tecnici. Almeno 2 delle figure principali (per intenderci: regista, direttore della fotografia, autore della colonna sonora…) devono appartenere ai soliti gruppi; lo stesso vale per almeno 6 membri della troupe e per il 30% delle maestranze. Non staremo a spiegare pure gli Standard C e D, che riguardano produzione, distribuzione e comunicazione: ormai avete capito come funziona.
Molte pellicole premiate in passato non sarebbero nemmeno in corsa
Di fronte al nuovo corso, da una parte c’è chi crede che questo sia il modo per avere una reale uguaglianza nell’industria audiovisiva; dall’altra chi pensa che si tratti di una forzatura che non tiene conto dei tempi dell’arte, e della loro imprevedibilità. Persino qualche star si è schierata contro. Viggo Mortensen parla di «esclusione», invece che di inclusione, e porta come esempio 1917, il dramma bellico di Sam Mendes nominato quest’anno che, stando alle future linee guida, rischierebbe grosso: in scena ci sono solo uomini bianchi (ma chi altro combatteva nelle trincee della Prima guerra mondiale?).
Il New York Times guarda in positivo: «Se si rispettasse davvero lo Standard A, assisteremmo a un radicale cambiamento nelle storie e nei personaggi». Nel mezzo, Variety: «Le nuove regole sono divisive e, almeno per ora, ancora un po’ confuse». Tra (giusta) traduzione in realtà delle eterne battaglie per i diritti di tutti e (comprensibile) ansia di eccesso di politicamente corretto, è inevitabile rileggere l’albo dell’Academy alla luce del futuro scenario. Senza andare troppo indietro, cioè a pietre miliari come Il Padrino (anche lì tutti maschi e tutti caucasici), i “best movies” più recenti non rispondono al canone dell’inclusione: ci sono solo bianchi sul Titanic, e pure nella Roma di Il Gladiatore; Forrest Gump, il personaggio cult di Tom Hanks, oggi sarebbe considerato un’offensiva caricatura; la famiglia di American Beauty è troppo tradizionale e quella di Il discorso del re… be’, è la Royal Family: e lì come si possono trovare etnie diverse da quella anglosassone?
I nuovi cult già rappresentano la diversity contemporanea
C’è però un’altra possibilità di lettura. Gli ultimi vincitori della statuetta come miglior film mettono in scena storie e personaggi prima sullo sfondo: sono dunque a prova di “accettabilità”. 12 anni schiavo racconta lo schiavismo con uno sguardo che non è quello del pur magnifico Via col vento, uscito 80 anni fa e ora sotto accusa; i volti di Moonlight, che ha soffiato la vittoria al troppo “white” La La Land, sono afroamericani e omosessuali; La forma dell’acqua schiera una donna muta, una di colore e persino una creatura che più “diversa” non si potrebbe. Green Book (starring, ironia della sorte, Viggo Mortensen) ripercorre con la sensibilità di oggi la discriminazione razziale di ieri, con tanto di co-protagonista black (Mahershala Ali) premiato con l’Oscar. Per non dire di un candidato – per quanto non vincitore – che ha provocato un terremoto nell’immaginario collettivo: Black Panther, il primo cinecomic afro che ha messo d’accordo pubblico, critica e giurie dei premi.
A questo punto è scontato porsi una domanda: e se Hollywood fosse già cambiata anche senza bisogno di regole? Se il cinema che abbiamo di fronte fosse già lo specchio di una società che riflette su se stessa, e fa autocritica, e trasforma i suoi parametri? Servono davvero delle norme e delle quote, oppure siamo già capaci (e intelligenti) da soli? Quest’anno l’Oscar al miglior film è andato a Parasite, capolavoro del sudcoreano Bong Joon-ho che ha battuto The Irishman di Martin Scorsese e C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino (altri titoli che adesso probabilmente non “passerebbero”). Non basta come segno di una reale rivoluzione in atto? O forse, a seguire le teorie di oggi, non va bene nemmeno quel film. Anche lì, in fondo, le minoranze non vengono rappresentate a dovere: sono tutti asiatici!