«Ci sono sempre stati i Windsor splendenti e quelli noiosi» dice il duca di Edimburgo a Elisabetta, nella seconda puntata della terza stagione di The Crown. «Accanto al ceppo noioso, diligente, affidabile ed eroico ce n’è un altro. Quello fulgido, brillante, individualista e… pericoloso». Se è vero che non si rimarca mai a sufficienza che The Crown è fiction ispirata a fatti e persone realmente esistiti ed esistenti, vero è altresì che l’analisi del duca non fa una piega. Per ogni Giorgio VI c’è un Edoardo VIII (colui che abdicò a favore del fratello per sposare la divorziata Wallis Simpson) e per ogni Lilibet (il soprannome usato in famiglia per Elisabetta) c’è una Margaret. (Forse per ogni William c’è un Harry, ma questo potrà dircelo solo il tempo).
La principessa Margaret, sorella minore della regina Elisabetta II
Sulla principessa Margaret, secondogenita di re Giorgio e sorella minore della regina Elisabetta II, si è detto di tutto. Il fatto che fosse attorniata da gente che sembrava ossessionata dal dover scrivere diari e memoir ha di certo aiutato. Ci sono stati tramandati aneddoti spietati e ritratti al limite della caricatura e con tutto questo materiale Craig Brown, critico e autore satirico inglese, ha confezionato una gustosissima biografia, che ben lontana dall’essere una ricostruzione didascalica della vita della principessa, è invece una raccolta di storie e fatti (99 ritratti, come recita appunto il titolo, vedi sotto) che ne restituiscono – o per lo meno ci provano – l’irrequieta personalità.
Giorgio VI diceva: «Lilibet è il mio orgoglio, Margaret la mia gioia». Ma leggendo questi ritratti, è chiaro che Margaret gioie ne conobbe meno di quanto ci potremmo aspettare. È colpa della Disney, più che di Perrault, se da bambine costruiamo il mito della principessa a cui non manca nulla, men che meno la felicità. A Margaret non mancavano i privilegi, la bellezza, il denaro, il fascino, e in certi momenti non le mancò l’amore, ma la sensazione che resta dopo averla avvicinata con pagine e pagine di diari e cronache, è che abbia molto sentito la mancanza di uno scopo. Sembra che dal “duty”, il dovere che grava sulla Corona, non traesse una gratificazione personale sufficiente e riversò le sue energie (che non le mancavano, d’altra parte era nata sotto il segno del Leone) nella mondanità e nell’autodistruzione: fumava qualcosa come 60 sigarette al giorno e alle 12 in punto beveva vodka e succo d’arancia.
Il suo primo amore, una storia da romanzo
La principessa Margaret ebbe un primo amore che già da solo era una storia da romanzo: il colonnello Peter Townsend, divorziato e con 16 anni più di lei. Era un legame inappropriato per un membro della famiglia reale e scegliendo lui, Margaret avrebbe dovuto rinunciare a essere una principessa. Nel 1955 fece diramare un comunicato: consapevole dei precetti della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio, non avrebbe sposato il colonnello Townsend.
Nessuno può sapere davvero cos’abbia provato nel fare questa scelta: né l’autore di The Crown Peter Morgan, né il giornalista Craig Brown né, men che meno, io. Tuttavia possiamo provare a immaginare e comprendere che da quello stato di principessa, l’enorme privilegio toccatole in sorte, di cui gradiva gli onori e tollerava gli oneri, lei si sentisse, naturalmente, definita.
Craig Brown riporta le sue parole: «Io sono unica, sono figlia di un Re e sorella di una Regina». La necessità di ripeterlo suggerisce che riempisse l’assenza di una precisa definizione di sé con il proprio sangue blu con l’osservanza del protocollo. Quando questo non le bastava, faceva di sè un personaggio irriverente ai limiti della sgradevolezza («La disobbedienza è la mia gioia» disse al poeta Jean Cocteau), che traeva un certo sottile godimento dal mettere a disagio gli altri.
Il matrimonio della principessa Margaret
Margaret continuò a camminare nel solco di un sentiero tracciato dallo scandaloso zio e finì con lo sposare un civile privo di blasone: Antony Armstrong-Jones, fotografo, professione che nella scala sociale dell’epoca, ci spiega Craig Brown, era poco sopra al parrucchiere e poco sotto la governante. Certo, occorre specificare che la madre di Tony era una contessa in seconde nozze e che il giovane aveva studiato a Eton e a Cambridge. Non era poi così disdicevole. Ma sotto la patina di superficie molti sapevano che l’approccio alle relazioni di Armstrong-Jones era piuttosto anticonvenzionale. Forse era bisessuale, ma quanto meno non era apertamente deplorevole.
Per un certo periodo furono anche felici insieme, la coppia d’oro degli Swinging Sixties, moderni e intraprendenti. Tony le scattò alcune tra le sue foto più belle, inclusa quella nella vasca da bagno con indosso la tiara Poltimore. A Edoardo VIII e a Margaret va comunque riconosciuto il merito di aver introdotto in famiglia la mésalliance, il matrimonio con una persona di una classe sociale inferiore, che oggi in casa Windsor non solo è accettata ma anche benedetta, segno di una monarchia al passo con i tempi (per quanto questa frase possa suonare francamente ossimorica).
Quando Margaret morì, il Guardian scrisse che aveva posto in essere una domanda cui anche Diana, dopo di lei, aveva cercato di rispondere: a che cosa serve, esattamente, una principessa? Ma la verità è che abbiamo bisogno, anche noi italiani, dei reali britannici. Di una moderna rappresentazione delle fiabe, forse. Di un’iniquità di rango che riflette, dopotutto, l’iniquità della vita. Ma anche di una lezione, che è proprio lei, la ribelle Margaret a darci, e cioè che la vera principessa è colei che è libera di essere chi realmente desidera essere e non chi porta una tiara. D’altra parte non dimentichiamo che la sua, la tiara Poltimore, Margaret la volle comprare tutta da sé e tutta per sé. Suggerendoci di non limitarci a ricevere in prestito qualunque sia il titolo che la vita ha pronto per noi, ma di sceglierlo, ottenerlo e indossarlo come e quando più ci piace.
Il libro da non perdere
Alessia Gazzola è l’autrice della serie L’allieva (Longanesi), sta per pubblicare Un tè a Chaverton House (Garzanti)