Ritratto della giovane in fiamme è un film che ti sorprenderà. Perché racconta una storia intima, una storia d’amore tra due donne alla fine del 1700, ma parla anche di amicizia, di amicizia fra due amanti e di amicizia fra donne. Arriva nelle sale italiane il 19 dicembre ed è diretto della regista francese Céline Sciamma, che durante lo scorso Festival di Cannes si è aggiudicata il premio per la Migliore sceneggiatura e la Queer Palm, e cioè il riconoscimento dato ai film che affrontano tematiche Lgbt, in questo caso una storia lesbica in un momento storico in cui non erano accettate socialmente né tantomeno permesse. Il film è stato inoltre insignito del premio per la miglior sceneggiatura agli European Film Awards 2019 ed è candidato ai Golden Globe 2020 come miglior film.
Un punto di vista femminile (e femminista)
Il film racconta la storia della giovane pittrice Marianne (interpretata da Noémie Merlant), che nella Francia prerivoluzionaria viene ingaggiata per fare il ritratto di Héloise (Adèle Haenel), un dipinto destinato al futuro marito della giovane nobildonna. La ragazza, contraria alle nozze combinate, si rifiuta di posare: su indicazione della madre (Valeria Golino), Marianne comincia a dipingerla di nascosto, fingendosi la sua dama di compagnia. Tra le due donne nascerà così un amore travolgente che le coglierà entrambe di sorpresa, ma anche un sentimento di comunione e rispetto reciproco che la regista ci tiene a definire con la parola “sorellanza”.
In Ritratto della giovane in fiamme tutte le protagoniste sono donne, gli uomini compaiono infatti – per un tempo brevissimo – all’inizio e alla fine della storia, sebbene se ne percepisca la presenza (spesso intimidatoria) per tutta la durata del film. È una storia intima e molto personale, che la regista ha scritto ribaltando i cliché del rapporto tra l’artista e la sua musa. Non c’è, infatti, un uomo affermato che “sceglie” una ragazza giovane e sprovveduta in virtù della sua bellezza, ma due donne che si confrontano, imparano a conoscersi, si mettono alla prova. Ed è solo uno dei modi in cui il film riesce a offrire una prospettiva diversa rispetto ad alcune dinamiche sociali ben consolidate. Il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, che l’ha scelto come Film della critica, ha definito il film di Sciamma «esteticamente raffinato e politicamente rivoluzionario» proprio perché «mentre si racconta una storia d’amore, di sguardi e di solidarietà, l’esclusione del maschile dallo schermo, relegato fuori campo ma presente nei suoi effetti sul corpo e nelle condizioni di vita delle donne, determina la cifra di un manifesto femminista discreto e potente, elegante e senza tempo».
Un film in costume per “riscrivere” la storia
Sciamma è al suo quinto lungometraggio e sin dal suo esordio alla regia – nel 2007, con Naissance des pieuvres – è stata apprezzata per sua la capacità esplorare le questioni di genere. Uno dei suoi film più conosciuti, Tomboy (2011), racconta infatti la storia di Laure e del suo tentativo di ritagliarsi una nuova identità. E anche in La mia vita da zucchina, fortunato film d’animazione del 2016 diretto da Claude Barras e sceneggiato da Sciamma, c’è una particolare attenzione al tema della costruzione della propria identità sociale. Ma come mai un’autrice così brava a leggere il presente sceglie di fare un film in costume? Lo spiega benissimo la stessa regista a Donna Moderna: «La scelta di ambientare il film nel passato, e proprio in quell’epoca lì, è stata molto precisa, perché la fine del 1700 è stato un periodo della storia dell’arte in cui molte donne, non solo in Francia ma in tutta l’Europa, erano pittrici, c’era una scena artistica e creativa femminile molto vivace».
Ma dopo quel periodo ne seguì un altro dove, nonostante la Rivoluzione, alle donne vennero nuovamente negate le conquiste da poco ottenute: «Si tornò nuovamente indietro», dice ancora la regista, «E siccome questa emancipazione e questo miglioramento del ruolo della donna nella società viene spesso raccontato come una progressione costante, io invece voglio far vedere che non è vero, che non è mai esistito un avanzamento costante, ma che piuttosto si procede per dare e togliere. E questo succede ancora adesso: ora c’è una sorta di “ascolto liberato” verso alcune tematiche, ma il problema rimane eccome. Un’altra cosa importante per me, poi, era creare una memoria che non c’era». Come la storia di due donne che si amano, alla pari, o come quella della pittrice indipendente ed emancipata, che persegue la sua carriera come farebbe un uomo.
Un racconto di sorellanza speciale
Un altro interessantissimo personaggio del film è la giovane Sophie, cameriera della giovane nobildonna, interpretata dalla 18enne Luana Bajrami, che per tutta la storia è messa allo stesso livello delle due protagoniste e con loro stringe un rapporto speciale. Un personaggio che Sciamma ha inserito, anche qui, con delle motivazioni ben precise: «Con questo film avevo l’ambizione di parlare di amore e di amicizia, e addirittura dell’amicizia dentro una storia d’amore. Volevo poi parlare di questo rapporto che è ancora più forte dell’amicizia e che io ci tengo a definire sorellanza, al femminile, e che determina l’abolizione della gerarchia sociale. Non ho mai voluto rinchiudere il personaggio di Sophie all’interno dello stereotipo della “serva”, non l’ho scritta come un “accessorio” per raccontare il ruolo di una servetta all’interno della società di quel periodo, ma l’ho scritta come un soggetto. E un’altra cosa che mi piaceva mostrare era la bravura di Sophie nel ricamo. Il ricamo era un’arte, ma essendo praticata soprattutto dalle donne è stata sempre relegata ad artigianato: io ho voluto mostrare il talento di Sophie e l’unione tra queste tre donne».
Ritratto della giovane in fiamme è perciò un film che immagina una versione alternativa del passato che conosciamo, ma in realtà parla a noi che viviamo nel presente. È quello, d’altronde, l’intento della regista, per la quale ogni film è un “prototipo” da costruire: «Il cinema è un’arte che costa. E per me è importante, quando faccio un film, sentirmi libera e non dover accettare compromessi. Conciliare questi due aspetti significa anche decidere come spenderli, questi soldi, fare delle scelte autoriali, decidere cosa far vedere e cosa no. Per questo è necessario uscire dalle convenzioni e tutto questo lavoro, che io chiamo appunto lavoro “di prototipo”, si traduce nel trovare le modalità di scrivere una storia cercando sempre di rimettere in questione i modi in cui quella storia è stata scritta fino a quel momento. Ecco perché è un prototipo: è qualcosa che prima non c’era». Come molte cose che riguardano le donne.