«Questo è il mio cuore/nelle tue mani/ questo è/il ferire/l’amare/lo spezzare/ il guarire». Inizia così Milk and Honey, il libro di poesie di Rupi Kaur, 24 anni, origini indiane (la famiglia è emigrata dal Punjab in Canada quando lei era piccola). Un libro che è rimasto per 9 mesi ai vertici delle classifiche del New York Times, ha venduto oltre 1 milione di copie e l’ha resa famosa. Parla di violenza sessuale, di difficili rapporti con gli uomini, di traumi e sofferenze. Con frasi brevi, che sono come un pugno nello stomaco, e in cui molte donne si sono riconosciute. Rupi, che ha la grazia e il fisico di una principessa orientale, è considerata una esponente del nuovo femminismo. «In realtà» mi spiega quando la incontro a Milano per la presentazione del libro, «io mi considero una intersectional femminist». Che è un termine che si usa nelle società multiculturali come gli Usa per indicare quelle donne che nella loro vita devono affrontare diversi problemi, dal razzismo al sessismo.
Il libro: milk and honey, TRE60
In che senso saresti una “intersectional feminist”?
Sono una donna orientale cresciuta in Occidente. In bilico fra i 2 mondi diversi di cui ho cercato per tutta la vita di trovare le similitudini. Oggi voglio parlare alle – e per – entrambe le donne di questi mondi.
Usando la poesia?
Fin da piccola mi sono interessata a quello che succedeva alle donne più grandi di me. Ho ascoltato le cose che succedevano intorno. Ho provato dolore ed empatia. Quando senti di persone che subiscono una violenza sessuale o una violenza domestica, quando vedi quanto fa paura e quanto spesso succede, non puoi non parlarne, non agire. Così ho scelto di farlo con i versi. Ma è come se le frasi, alla fine, siano scaturite da sole, per rispondere alle mie domande e portare pace a me stessa.
Come è nato questo progetto?
Al college ho studiato poesia e ho cominciato a fare dei reading teatrali. Erano lunghissimi, anche 4/5 minuti ognuno. Un amico però un giorno mi ha detto: «Perché non provi a girare dei video? Così invece di parlare a un pubblico di 100 persone puoi rivolgerti al mondo intero». Non pensavo fosse una buona idea perché non amo avere i riflettori puntati addosso. Però poi altri amici hanno insistito ecominciato a filmarmi (i video si possono vedere su YouTube o sul suo sito www.rupikaur.com, ndr). L’ho fatto per 2 anni, non seriamente, anche se sapevo che avevo qualcosa da dire. E volevo che il mondo ascoltasse. Poi ho scoperto Instagram, con la forma quadrata, i margini: era un mezzo perfetto, semplice, per arrivare subito al lettore. Le poesie all’inizio le ho “pubblicate” così.
Su Instagram: il progetto sulle mestruazioni che ha fatto discutere
Su Instagram è apparsa anche una foto, che ha fatto tanto discutere, di te con i pantaloni macchiati di sangue mestruale.
Quello scatto faceva parte di un progetto che ho messo in piedi l’ultimo anno di università alla facoltà di Arti visive. Ci avevano chiesto di abbattere un tabù usando un mezzo visivo qualsiasi: una foto, un’app, un video, un quadro. Io ho deciso che il tabù erano le mestruazioni, qualcosa di doloroso per me e con cui avrò a che fare per un tanto tempo ancora. Così ho pensato: perché non considerare questo periodo che riguarda tutte le donne una volta al mese in modo positivo? Perché non celebrarlo? Parte del progetto prevedeva poi che la foto venisse diffusa su un social per vedere la reazione della gente. Non mi aspettavo la polemica e il dissenso. Scrivevo già di argomenti tabù, come la violenza, e una cosa così non mi era mai successa. Forse il fatto che fosse un messaggio visivo cha colpito di più e ha fatto arrabbiare molte persone.
Poi Instagram ha rimosso l’immagine, ma dopo ti ha chiesto scusa.
Sì, ed è ipocrita che se posti una foto in reggiseno e mutandine è ok, però non lo è se hai una piccola perdita di sangue.
Non è anche assurdo che nel 2017 le millennial debbano ancora lottare per i loro diritti?
Sì certo. Uomini e donne non siamo ancora uguali, né economicamente né socialmente. Non in Occidente, non in Oriente. Pensa all’accesso all’educazione o ai trattamenti sanitari. La parità vera è lontana.
I tuoi genitori, immersi nella cultura e società indiana, cosa pensano di quello che stai facendo?
Le donne indiane crescono e vengono educate allo scopo di occuparsi della propria famiglia, mettendo il marito al primo posto e preservando la sua idea di onore. È una cosa che si tramanda di generazione in generazione. Così quando siamo emigrati e io e mia sorella crescevamo come ragazze occidentali, nostra madre ha cercato di proteggerci dicendo non fare questo o non fare quello. E noi eravamo sempre più arrabbiate. È normale: ogni comunità straniera ha delle cose contro cui lottare. Ora che sono adulta però vedo le cose in modo diverso.
E sei diventata un modello per molte giovani.
In tante mi dicono: «Vorrei essere come te». Ma io rispondo a loro di smetterla di compartirsi. «Non c’è differenza tra me e voi. Quando lo capirete, diventerete più potenti e potrete fare quello che volete».
Il prossimo libro?
È quasi finito, sto lavorando alle illustrazioni. Avrà a che fare col mondo. Non avevo progettato di scriverlo, ma il clima politico che c’è ora in America me lo ha suggerito.