Ryan Reynolds e Blake Lively, marito e moglie dal 2012, sono una delle power couple più autoironiche di Hollywood. Quando lui, vantandosi di essere un attore di metodo, ha dichiarato di essere “scomparso” nel ruolo di Pikachu, il mostriciattolo giallo che interpreta grazie alla motion capture in “Pokémon: Detective Pikachu“, lei ha commentato: «A me non sembra, non si è nemmeno sforzato di fare una voce diversa».
I loro esilaranti siparietti sui social, dove si prendono gioco l’uno dell’altra, sono la conferma di un amore solido, sbocciato dopo essersi conosciuti sul set di “Lanterna verde”, nel 2010, quando Ryan era sposato con Scarlett Johansson. «Credo che il modo migliore per cominciare una storia sia in amicizia» racconta il 42enne attore canadese a Londra, in un giorno di pausa dalle riprese del sequel di “Come ti ammazzo il bodyguard”. «Un anno dopo la fine della promozione di Lanterna verde eravamo entrambi single e abbiamo organizzato un’uscita a 4: lei con un altro, io con un’altra. È stato un appuntamento imbarazzante per gli altri 2, perché tra Blake e me erano fuochi d’artificio».
«Ho girato questo film per le mie bambine»
La coppia ha 2 figlie: James, 4 anni, e Inez, 2 (ed è in attesa del terzo). È per loro che Ryan ha deciso di recitare in Detective Pikachu: «Qualche giorno fa la maggiore mi ha detto che la voce di Pikachu somiglia alla mia. Ho fatto finta di niente, lascerò che scopra la verità quando la porterò alla première» ride. «Non ho mai interpretato un film adatto ai bambini, è stata un’occasione unica». Non ha tutti i torti, visto che è diventato una delle star più richieste al mondo grazie all’irriverente supereroe Deadpool. Le piccole, però, non hanno visto la pellicola: «Sanno che sotto il costume rosso c’è il loro papà, ma ogni volta che James veniva a trovarmi sul set era un dramma. Aveva 1 anno e piangeva a dirotto quando vedeva la mia faccia ricoperta di cicatrici per via del make-up».
La reazione sarà di certo opposta davanti a Detective Pikachu: il film porta al cinema il “Topolino giapponese”, un fenomeno globale che dal 1996 a oggi ha conquistato giovani e adulti con videogiochi, serie animate e carte collezionabili. Al centro della storia, ambientata in una metropoli futuristica dove umani e Pokémon convivono, ci sono l’investigatore Pikachu, capace di lanciare scariche elettriche dalla coda, e il giovane Tim (Justice Smith), impegnati a risolvere un mistero che potrebbe capovolgere gli equilibri del Pianeta. «Mi sono divertito un sacco a interpretare Pikachu: ogni sua espressione e movimento sono miei, è bizzarro rivedermi in una creatura digitale. Sarebbe bello poter girare ogni film con la motion capture, perché tutto è possibile» dice Ryan, che in sala di doppiaggio ha anche aggiunto nuove battute al personaggio. «Da ragazzo ho iniziato con l’improvvisazione teatrale: quella è stata la chiave del mio successo, mi ha insegnato più di quanto avrei appreso in una scuola di recitazione».
«Ho sofferto di ansia per anni»
A chi crede che non si possa avere nulla in comune con un animaletto come Pikachu, Reynolds replica: «In realtà credo che sarei un bravo investigatore come lui. Sono cresciuto in una famiglia di poliziotti, da papà ai miei fratelli». Il rapporto col genitore, scomparso nel 2015 dopo 20 anni di lotta col Parkinson, non è stato dei migliori: «Mio padre James era un tipo tosto con noi: crescere a casa mia non è stato facile, mi sentivo spesso un bersaglio in movimento» ha ammesso al New York Times, spiegando di aver combattuto per tutta la vita con ansia e depressione, che ha cercato di allontanare attraverso esercizio fisico e senso dell’umorismo. «Faccio spesso battute perché mi aiutano a non focalizzarmi su tristezza e malinconia».
È stata Blake a farlo riavvicinare al padre prima che morisse. «Mia moglie mi ha reso una persona più empatica, mi ha fatto ricordare i giorni felici con lui». Il nome della loro primogenita James è un omaggio al genitore. «Diventare papà ha cambiato la mia percezione delle cose. Tutto ciò che faccio è per le mie figlie» dice con un sorriso. «Le amo così tanto che, quando saranno grandi e andranno al college, sarò quel tipo di padre che dice: “Davvero? Che coincidenza, mi ci sono appena iscritto anche io”. Spero che mi sopporteranno!».