Prima di Sara Simeoni non sapevamo di poter volare. Fu lei, lunghissima e sottile, una testa di ricci, i calzettoni di spugna al ginocchio, la corsa felpata, a portarci sopra i 2 metri d’altezza, a farci vedere il mondo dall’alto per la prima volta. Sono passati 43 anni dal suo record del mondo nel salto in alto, quando si immaginava che soltanto le anglosassoni, le rumene e le tedesche potessero osare tanto, mica le figlie della provincia veneta. E 41 anni dalla sua medaglia d’oro all’Olimpiade di Mosca, quando gli atleti azzurri gareggiarono sotto la bandiera olimpica per protesta contro l’invasione russa in Afghanistan: quella volta Sara non ebbe neanche l’inno di Mameli sul podio. «Però cantai Viva l’Italia di De Gregori, una canzone che mi è sempre piaciuta». L’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura, l’Italia che non ha paura. Una canzone del 1979, quando Sara volava già più in alto di tutte. Oggi la Simeoni è una signora di 68 anni che non ha paura di prenderci un’altra volta per mano per raccontarci lo sport e la liturgia olimpica con leggerezza e allegria. Lo ha fatto tutte le sere su Rai2, ospite fissa de “Il circolo degli anelli”, la trasmissione condotta da Alessandra De Stefano.
Soddisfatta dell’esperienza tv? «Pensavo che fosse per una sera. Solo dopo ho capito che era un impegno per tutte le Olimpiadi. Mi diverto, però non dormo mai: sono cotta. E dire che io di solito la sera accendo la tv e alla prima pubblicità mi addormento». Su Rai2 balla, scherza, gioca. I giovani hanno scoperto un mito dello sport, i più vecchi che lei non è così seria come sembrava. «Non potevo mica fare la pazza quando saltavo: adesso invece sì (ride, ndr)».
È vero che da piccola voleva diventare una ballerina? «Frequentavo le elementari ed erano altri tempi: c’era solo la danza classica, e mi scartarono perché ero troppo più alta delle altre. Capii che non aveva senso insistere in quella direzione».
Fu così che la portarono al campo di atletica. «Provai un po’ tutto. Ma nel salto avevo delle possibilità. Ci volle un po’ perché andassi ad allenarmi a Formia con gli altri della Nazionale: i miei volevano che prima studiassi: ho fatto il liceo artistico, poi l’Isef».
Oggi le donne ai Giochi sono quasi la metà degli uomini. E vincono. «Quello che mi piace è che vengono alla luce tante storie di tenacia, di ostinazione, di passione che altrimenti rimarrebbero sconosciute. Ho sempre saputo che questa è la vera forza dello sport, al di là delle medaglie. Tendiamo a celebrare soltanto chi vince, o chi è estroverso. Ma sono le storie più semplici a veicolare il messaggio più bello».Come gli ori di Tamberi e di Jacobs, arrivati nel giro di pochi, magici minuti. «Per Gimbo mi sono emozionata, era da tanto che non mi capitava, ha riportato in alto la mia specialità. Non avevo finito di gioire che è arrivata l’impresa di Jacobs nei 100 metri. Da pelle d’oca. E lui ha ancora enormi margini di miglioramento».
Lei ha partecipato a 4 Olimpiadi. Che cosa vuol dire? «Io non avevo mai osato pensare neanche di farne una. Quattro sono tante. Soprattutto in uno sport individuale e in una specialità così traumatica: ogni volta che stacchi, sono chili che fanno pressione sulle articolazioni e sui tendini della caviglia».
Cos’ha provato vedendo Federica Pellegrini piangere alla fine della sua quinta Olimpiade? «Mi ha sorpresa, credevo che non ne potesse più. Pensavo che fosse contenta: più di così che cosa avrebbe potuto fare? Sarà sempre la Pellegrini, sarà portata su un piedistallo, rispettata, amata».
A lei è successo? «Erano altri tempi. Noi abbiamo aperto la strada a quelli che sono venuti dopo».
Ha mai pensato che se fosse nata 20 anni dopo sarebbe diventata ricchissima? «Ci ho pensato, sì. Forse ne sarebbero bastati anche 5. Però questo boom, ripeto, è anche merito nostro: abbiamo contribuito a far conoscere l’atletica italiana, abbiamo dimostrato che potevamo vincere, il pubblico ci seguiva, sono arrivati gli sponsor, è cambiato tutto molto in fretta».
Quanto manca alla parità fra donne e uomini nello sport? «Sono stati fatti molti passi avanti. Adesso le atlete non sono in mezzo a una strada, ci sono i gruppi militari, hanno uno stipendio sicuro. Io sono Grand’ufficiale ma sono dovuta arrivare ai 67 anni per andare in pensione, grazie alla legge Fornero».
È vero che per allenarsi doveva aspettare che i calciatori del Verona avessero finito? «Sì, loro si allenavano a porte chiuse e non volevano nessuno. Soltanto Ferruccio Valcareggi (ex tecnico di Verona e Nazionale, ndr) ci permise di allenarci contemporaneamente: non davo molto fastidio».
Sarà che ha sposato il suo allenatore Erminio Azzaro ma lei non ha dovuto scegliere, è stata tutto: atleta, moglie e mamma. «Ho fatto sport finché ne ho avuto voglia. Mi sembrava di fare la cosa più importante del mondo, ma ho fatto scelte difficili: non mi piace chiamarli sacrifici, ero io che volevo farli, però non avevo garanzie se non fossero arrivati i risultati».
Sono arrivati i risultati, e con quelli l’immortalità. «Certo, ci ho anche creduto a questa cosa dell’immortalità. Gli dei, la gloria. La prima volta in Grecia sono andata sul Partenone, e anche a Olimpia, ero emozionata. Poi cominciano ad arrivare gli acciacchi e capisci che sei umano come gli altri, con gli stessi identici problemi. Quando scendi dal podio cammini sulla Terra come tutti».
Non è ancora nonna? «No. Ma quando capiterà ne saremo felici. I nonni sono importanti. I primi azzurri che hanno vinto medaglie a Tokyo le hanno dedicate ai nonni: mi ha colpito, è stato un bel segnale dopo un anno e mezzo in cui per paura che si contagiassero i nonni sono stati lasciati ancora più soli».