Per il suo “competition attire” (o divisa da gara, come si chiama in gergo) agli Europei che si sono svolti lo scorso aprile a Basilea, la ginnasta tedesca Sarah Voss ha così motivato la scelta di indossare un “bodysuit” o “unitard”, e cioè una tuta interna, al posto del classico body: «Le nostre ragazze vogliono essere dei modelli per le giovani ginnaste e mostrare loro come possono presentarsi in maniera differente senza sentirsi a disagio a causa di alcuni elementi». Ha fatto molto discutere, e non solo gli appassionati, il suo post su Instagram, in cui Voss ha scritto come «è importante che [le atlete, ndr] possano scegliere come apparire in qualsiasi momento. La capacità di scegliere per noi stesse quello che indossiamo ci darà ancora più forza nel futuro». Le sue parole hanno ottenuto una grande risonanza mediatica, sia per l’attenzione che oggi esiste intorno al tema dei diritti delle donne in tutti i campi, sia perché la ginnastica artistica ha alle spalle recenti storie di abusi sistemici.
La più eclatante è stata quella di Larry Nassar, medico della Nazionale Usa condannato nel 2018 per aver abusato di più di 100 donne e bambine nell’arco dei suoi vent’anni nella squadra, un caso che ha avuto un’eco mondiale e ha spinto a una riflessione più ampia sui metodi e le pratiche nella disciplina. Un problema, quello degli abusi, che non riguarda solo l’artistica femminile e di certo non solo gli Stati Uniti, come aveva raccontato Gianluca Ferraris qui su Donna Moderna documentando i casi italiani come quello della Federnuoto. La scelta di Voss è stata celebrata come rivoluzionaria, ma il dubbio sorge: esiste davvero un regolamento che impedisce alle atlete di scegliere la divisa da gara che preferiscono e le obbliga ai body “rivelatori”? In realtà no, come spiega a Donna Moderna Donatella Sacchi, presidente del Comitato tecnico mondiale ginnastica artistica femminile e da poco a capo del Safe Guarding Working Group, creato dalla Federazione internazionale proprio per raccogliere le istanze di tutte quelle atlete che hanno riscontrato difficoltà o abusi da parte dei loro allenatori o più in generale nell’ambiente.
«Il regolamento in merito al “leotard” o abbigliamento di gara è aperto a molte possibilità, proprio per venire incontro a tutte le esigenze delle ginnaste, dalle più piccole alle grandi. Ci sono ginnaste di tutte le tipologie fisiche e di tutte le culture. Si parte dal modello standard, che è quello che vediamo in tutte le gare, che in italiano chiamiamo “body” ma sarebbe più giusto chiamarlo divisa da gara: a manica lunga, con scollo rotondo, dietro non può andare sotto la linea delle scapole, proprio perché deve essere un capo elegante e rispettare dei criteri morali, diciamo così. Per quanto riguarda la sgambatura, di solito questi costumi hanno il cosiddetto taglio a V, che non deve andare oltre le anche» dice Sacchi.
Il body è l’unica possibilità per le atlete?
Nient’affatto. «Nell’attuale regolamento ufficiale, in vigore dal 2009, al di là di questa possibilità [si possono introdurre delle modifiche, ndr]: nella parte superiore si può arrivare a eliminare quasi del tutto le maniche, ma devono esserci almeno 2 cm perché non “caschi” nulla; per la parte inferiore ci sono molte possibilità e una di queste è proprio quella che le ginnaste della Germania hanno portato agli Europei. Si tratta di un pezzo unico, detto “unitard”, che arriva fino alla caviglia. Una ginnasta dell’Azerbaigian l’ha indossata alla Coppa del mondo a Doha nel 2019 e allora la cosa non aveva fatto scalpore: l’atleta era musulmana ma aveva specificato in un’intervista che la scelta dell’unitard non era stata fatta per motivi religiosi, ma perché era il costume più adatto alla performance (in altre occasioni ha infatti indossato il leotard tradizionale). Quindi potremmo dire che le ginnaste tedesche hanno seguito le regole, ma forse in quel contesto è sembrata una novità. C’è anche una terza possibilità: invece del taglio V nella parte della sgambatura, si può scegliere un taglio orizzontale che va a formare una specie di pantaloncino (una ginnasta del Qatar, ad esempio, l’ha indossato spesso: nel suo caso la scelta è stata fatta per motivi religiosi). Il codice non discrimina nessuno, al contrario cerca di aprirsi a tutti e dare possibilità di scelta», conclude Sacchi.
Una polemica “social”
Anche Lorena Monguzzi, ex atleta della squadra nazionale ed ex allenatrice della squadra di ginnastica ritmica molto attenta alla questione dei diritti delle donne dello sport, non è convinta che la polemica sollevata da Voss sia centrata, ma che anzi rischi di semplificare e distorcere un dibattito fondamentale. «Mi sono documentata insieme all’amica Luisa Rizzitelli di Assist [associazione che si batte contro le discriminazioni di genere nello sport, ndr] perché sono temi per me molto importanti. È fondamentale che in un momento come questo, che è favorevole perché c’è l’attenzione dell’opinione pubblica, le battaglie siano ben argomentate e ben centrate. Queste caratteristiche, a mio modo di vedere, mancano nella polemica sollevata da Voss. Io sarei con lei se si scoprisse che esiste un divieto che impedisce alle atlete di poter gareggiare con una tenuta che le faccia sentire a proprio agio e che le costringe a un’esibizione di parti del corpo alle quali sono notevolmente sensibili. Ma i regolamenti nulla dicono a questo proposito, anzi, il codice dei punteggi dice che le ginnaste possono indossare un leotard sgambato che non vada oltre la cresta iliaca, una tuta intera fino alla caviglia non trasparente e di “foggia elegante” oppure una calzamaglia che la ginnasta può indossare sopra o sotto il body. È chiaro quindi che la questione mossa dalla ginnasta non ha un fondamento. Purtroppo, è qualcosa che ha a che fare più con le dinamiche social che con la ginnastica. Utilizza in maniera distorsiva un argomento e, nella generale disinformazione che regna sulla disciplina, crea una questione dal nulla. E lo dico da femminista. Trovo che sia un atteggiamento pericoloso, perché disperde energie ed è disfunzionale rispetto alla serietà e alla rilevanza del tema, ma anche rispetto ad altre prese di posizioni più difficili e significative».
La divisa da gara tra performance, estetica ed esigenze personali
Se non altro, però, i post di Voss hanno centrato un punto, e cioè quello di riportare l’attenzione sul complesso (e interessantissimo) rapporto che esiste – in una disciplina come la ginnastica artistica femminile, oggi sempre più popolare grazie anche alla notorietà raggiunta da ginnaste come Simone Biles – tra la performance agonistica, le esigenze estetiche e quelle personali delle atlete. Le regole di cui abbiamo parlato finora, infatti, devono tenere conto di moltissimi elementi: devono garantire l’esecuzione in scioltezza dei movimenti, rappresentare il lato artistico ed estetico della performance e, allo stesso tempo, venire incontro alle esigenze e alla personalità delle atlete, dalle motivazioni religiose (come nel caso delle atlete musulmane) a quelle di salute (come segnala Sacchi in Federazione si discute oggi della possibilità di coprire i capelli, anche pensando alle atlete che si riprendono da malattie gravi).
Come racconta Sabrina Buzzi, titolare insieme alla sorella Giorgia di Sigoa, l’azienda che veste la Nazionale italiana di ginnastica artistica e molte altre atlete internazionali di primo livello, dietro ogni capo «C’è uno studio che si plasma sul fisico delle atlete e sui loro movimenti. La cosa fondamentale è che sia un capo “comfort” perché se il body non è funzionale la performance ne risente. Alcuni tessuti, ad esempio, pur essendo bellissimi vengono eliminati perché arrecherebbero fastidio durante il movimento. Con le atlete della Nazionale si lavora a strettissimo contatto: la nostra capo designer spesso parte dalle foto delle ragazze per capire qual è il loro stile, le loro caratteristiche fisiche e così via. È una sorta di su misura. Per ognuna di loro i body vengono studiati e scelti a seconda della loro personalità, per cercare uno stile che le rispecchi appieno».
Secondo Sacchi, la disciplina è molto cambiata negli anni così come sono cambiate le ragazze che la praticano: «Non siamo più ai tempi di Nadia Comăneci e di Montreal 1976. Se si guarda oggi una gara di artistica si troverà di tutto, poi ovvio che le atlete di élite hanno determinate caratteristiche. In un campionato del mondo ci sono le atlete asiatiche che sono più minute, per loro natura, ma anche le atlete sudamericane o mediterranee che invece hanno una corporatura diversa». Una cosa che non è cambiata, però, è il racconto sessista che spesso si fa delle atlete, in qualunque disciplina: al di là della legittima ammirazione per le divise da gara, che sono appunto parte integrante di questo sport, non sarebbe meglio parlare dei meriti agonistici delle atlete invece di come si vestono?