Che indossi un long dress leopardato, uno scollatissimo abito dorato di paillettes o un tailleur pantaloni sbrilluccicante, Sharon Stone non è una diva che passa inosservata. Non lo era neppure da ragazzina, quando andava in giro per Los Angeles sui pattini a rotelle, squattrinata e senza prospettive. Eppure non ha mai accettato compromessi: è stata molestata, licenziata e allontanata da Hollywood.
Sharon Stone è stata dimenticata per 20 anni
Ma ora sembra tornata e intende restare. Lo aveva anticipato nel memoir Il bello di vivere due volte (Rizzoli) e lo ha ribadito stringendo in mano il Golden Icon Award al Festival di Zurigo. A 63 anni e con una carriera come la sua alle spalle, verrebbe da pensare che dei trofei non le importi nulla: invece no, ci tiene eccome, perché per 20 anni è stata dimenticata. Troppo chiassosa, troppo spregiudicata, troppo diretta, troppo avvezza a dire le parolacce: per lo show business era “troppo e basta”. Adesso si riprende il posto che è suo di diritto nell’Olimpo delle star e ci scherza su. Quasi.
Dica la verità: si era stufata del mondo delle celebrity?
«Nemmeno per sogno: chi non vorrebbe essere una diva del cinema? La verità è che sono stata messa alla porta».
Dicono che abbia fatto fuori manager e agente e che adesso si gestisca da sola. È vero?
«Certo: le agenzie non sono sempre oneste, spesso passano le proposte per te ad altri clienti. Da quando non ho più un manager ricevo dieci progetti a settimana, mi scrivono tutti su Instagram e io leggo e rispondo a mio piacimento. Prima, invece, non ho sentito nulla per molto, molto tempo. Ecco perché ora ho voglia di lavorare tanto, soprattutto con le donne. Quando ho cominciato mi trovavo spesso a essere l’unica tra 250 maschi. Ok, ho imparato a parlare quello che chiamo “uominese”, ma oramai le cose sono cambiate».
Un collega, invece, con cui collaborerebbe a scatola chiusa?
«Il regista, sceneggiatore e attore neozelandese Taika Waititi (premio Oscar per la sceneggiatura di Jo Jo Rabbit, ndr): mi piace lui, mi piace come pensa… È un grande».
E in passato?
«Alla maestra di scuola dicevo che avrei toccato l’apice della carriera se avessi diviso il set con Robert DeNiro. Con Casinò di Martin Scorsese è successo, ricordo ancora l’abito borgogna che indossavo quando Bob si avvicinò e mi disse: “Sei una brava attrice”. E io, con la sigaretta in mano, gli risposi: “Lo sono, coglione”. In quel momento ho capito di avercela fatta, avevo raggiunto i miei obiettivi, ma subito dopo mi sono trovata disorientata: “Cosa faccio adesso?”».
Come lo ha capito?
«Alla sera del debutto di Basic Instinct: non ero mai stata a una première e andava tutto storto. Il giorno prima trovarono mio zio congelato a morte nella neve, col sangue rappreso sul vialetto di casa e non si sapeva se lo avessero assassinato o se gli fosse preso un malore. La notizia doveva essere tenuta nascosta alla stampa e nessuno della famiglia poteva accompagnarmi. Ero sola, e venne con me Faye Dunaway. Finito il film si sentiva solo silenzio, Michael Douglas mi guardava e io chiedevo a Faye come comportarmi: “Stai ferma e muta” mi disse. Passavano i secondi e saliva il panico, poi la sala scoppiò in un boato di urla e applausi. Solo allora le chiesi di nuovo: “E ora?”. E lei: “Adesso sorridi, ti baceranno tutti il culo, sei diventata una cazzo di star”».
Detta così sembra facile.
«Non lo è stato, e non lo è tuttora: proprio quando ho detto che volevo fare l’attrice, mio fratello è finito in galera per spaccio di cocaina, una situazione orribile… I miei genitori si opposero strenuamente, terrorizzati all’idea di perdere un’altra figlia».
Attrice per Woody Allen
Com’è passata da modella ad attrice per Woody Allen?
«Un mio amico, direttore casting, un giorno mi telefonò per dirmi di correre a fare un provino per lui. Arrivai sui pattini, trafelata, e svettavo per altezza su tutti gli altri. Woody mi notò, ma non mi disse nulla, così me ne andai. Mi richiamarono poi per fare da comparsa un paio di giorni in Stardust Memories, era il 1980: mentre ero seduta per terra a leggere, Woody si avvicinò e mi chiese la trama del libro. Dopo quella chiacchierata mi offrì di restare per 2 settimane».
Femme fatale suo malgrado
Si sentiva a suo agio con l’immagine di femme fatale?
«Ne ero terrorizzata: mi ritrovavo gente sul tettuccio dell’auto e una volta al Festival di Cannes i ladri mi svuotarono la camera d’albergo portandosi via tutto, dagli slip al dentifricio. Sono stata scortata fuori in costume da bagno e infradito da donne delle pulizie, perché l’unico bodyguard che avevo veniva risucchiato dalla folla. Un tizio mi strappò l’unghia del piede e mi sono ritrovata a sanguinare per la Croisette senza potermi fermare un secondo. Per fortuna ora, grazie ai cellulari, la gente ha smesso di tirarmi i capelli e togliermi i vestiti».
La psicopatica di Basic Instinct
Cosa pensava di Catherine in Basic Instinct?
«Era una psicopatica, affascinante e complicata e volevo incarnarla a tutti i costi, ma mi ha distrutta: non dormivo più, avevo incubi e sono diventata sonnambula. Sul set mi dissero di starmene buona perché gli uomini nello show business volevano che le donne esprimessero sentimenti, non opinioni. Me ne sono fregata: ho messo tacchi altissimi – altro dettaglio che mi veniva vietato per non intimidire il sesso forte – e mi sono cotonata i capelli, sembravo una vichinga. Il regista Paul Verhoven mi disse: “Sei una donnona e sei forte. Mi piaci”».
I diritti Lgbt+ e i figli
Oggi è un’attivista Lgbt+, tra le altre cose.
«Le scelte sessuali altrui non ci riguardano, che le capiamo o condividiamo o no, e nessuna convinzione religiosa può costituire un alibi per giudicare».
Che rapporto ha oggi con i suoi figli? Roan, Quinn e Laird oggi hanno 21, 16 e 15 anni.
«Loro non credono affatto che un tempo fossi una cosiddetta movie star perché non mi vedono così, e infatti non ci pensano proprio a guardare i miei film. Sono adolescenti disordinati, che lasciano calzini sporchi in giro per la stanza, e non se ne accorgono nemmeno!».