Come si sopravvive all’imperdonabile? Il libro di Sharon Stone, 63 anni, si intitola “Il bello di vivere due volte” (Rizzoli) e naturalmente comincia con una rinascita, nell’istante in cui sembrava pericolosamente simile alla morte. È un giorno d’autunno del 2001: la diva di Basic Instinct apre gli occhi e si trova davanti un uomo bellissimo che le accarezza i capelli. Sembra la scena di un film, solo che lui non le sussurra parole d’amore, bensì: «Ha un’emorragia cerebrale». «Subito dopo è diventato tutto bianco» ricorda l’attrice. «Una specie di tormenta di neve straordinaria e luminosa mi ha sollevato e sradicato dal mio corpo per gettarmi in un altro magnifico e fatto di… consapevolezza?». Da quella luce emergono volti familiari, calorosi e rassicuranti, circondati dall’amore. È tutto così mistico. Poi una botta tremenda – «Come un calcio di un mulo in pieno petto» – la riporta nella stanza gelida del pronto soccorso. «Avevo fatto una scelta» scrive Sharon Stone. Aveva scelto di continuare a vivere.
Non è un libro di pettegolezzi
Il libro di Sharon Stone procede come una chiacchierata avanti e indietro nel tempo, collegando i fatti dolorosi di una “prima vita” da celebrità internazionale alla nuova consapevolezza che ne restituisce il senso. Non ci sono stilettate o rese dei conti: non è un libro di pettegolezzi. A parte il medico dell’ospedale che aveva sbagliato diagnosi (non fu un aneurisma, ma la dissezione dell’arteria vertebrale a provocare l’emorragia), premurandosi di informare il settimanale “People” prima ancora di farle leggere il modulo di consenso informato per la craniotomia cui intendeva sottoporla, la “nuova Sharon” segue perlopiù il mantra della sua elegantissima nonna paterna: «Se non hai niente di carino da dire, stai zitto». Ma qualcosa di carino prova a dirlo sempre: il perdono è l’architrave della sua nuova identità.
Perché ha perdonato il padre violento
Sharon Stone nasce in una famiglia di irlandesi bellissimi, piuttosto poveri e molto orgogliosi. Da piccola viene considerata una tipa stramba. Finisce costantemente nei guai per via di «quella cosa disdicevole per il genere femminile che si chiama pensare». Cresce con 2 fratelli e una sorella intorno al tavolo della cucina in un’enorme casa a Meadville, Pennsylvania, grazie ai sacrifici di papà Joe, e ai salti mortali compiuti senza apparente sforzo da mamma Dot. Ma questo idillio da provincia americana nasconde profonde zone d’ombra: quando fa qualcosa di sbagliato, Sharon deve aspettare che il padre torni dalla fabbrica. «Mia madre restava con lo sguardo basso sul lavandino mentre lui mi trascinava giù nel seminterrato per farmela pagare a suon di cinghiate». A 14 anni capisce che non c’è mancanza che meriti una tale punizione, e lo affronta: «Che c’è, hai bisogno di picchiarmi un po’ per sentirti più uomo?». Lui scoppia a piangere, poi smette per sempre. Così il loro rapporto può crescere e consolidarsi. Quando il mondo si oscura, quel giorno di settembre, lui corre fuori dalla sala operatoria a pregare per lei. E viceversa, dice Sharon: «Ho capito davvero quanto amavo mio padre la prima volta che la morte ha ballato con lui per portarselo via».
Perché ha fatto pace con la madre
Il legame con la madre è ancora più viscerale, crudo, intenso: nel libro ci sono accenni affettuosi al rossetto rosso «che ancora le copio», al volume nascosto sopra al frigo di “Paura di volare” – il libro dirompente sulla sessualità femminile che Erica Jong pubblicò nel 1973 – e ai numeri di “Cosmopolitan” lasciati deliberatamente in giro, in un silenzioso passo a due di emancipazione reciproca. Eppure Sharon racconta di essere cresciuta praticamente senza conoscerla. E poi rivela: quando erano bambine, lei e la sorellina Kelly venivano lasciate dai genitori a casa del nonno materno, in balìa delle sue perversioni. Paralizzate dal disgusto, ammutolite dalla paura. Ne hanno parlato tra loro per la prima volta da adulte, senza riuscire a capacitarsi di come la madre potesse aver permesso una cosa del genere. Poi ne hanno parlato con lei: l’hanno incolpata, l’hanno ferita, l’hanno ignorata. Ma è solo interpellandola per la stesura del libro che Sharon Stone ha scoperto la verità su sua madre: che da bambina veniva picchiata dal padre tutti i giorni, che a 9 anni fu affidata a un’altra famiglia che la trattava da Cenerentola, che a 16 anni si sposò per amore e per scappare. Così è finalmente riuscita a trovare una spiegazione a quel suo modo di amare senza tenerezza o pietà, a «conoscere mia madre come persona, separarla dalle esperienze vissute da bambina e da come la giudicavo, e comprenderla da una prospettiva adulta». Dopo anni di terapia, a un certo punto si è persino resa conto che «per mio nonno doveva essere stato un inferno essere un pedofilo».
A Hollywood ha fama di essere una riservata
Qualunque cosa le sia successa a Hollywood è stato poco più di un inciampo. È vero: la scena senza mutande in Basic Instinct è stata girata senza il suo permesso, e lei ha pure dato uno schiaffo al regista Paul Verhoeven, ma poi sono rimasti amici. È vero: una volta un produttore le ha detto che per «migliorare la chimica sullo schermo» doveva andare a letto col coprotagonista, e la sua riservatezza ha contribuito a procurarle la fama di «poco scopabile», che a Hollywood significa scarsamente ingaggiabile, ma «c’è disciplina nell’onorare se stessi». Sharon Stone ha fatto del buddismo la sua strada e della beneficenza la sua attività principale, dopo aver devoluto gli anni più gloriosi della sua carriera (e della sua salute) al cinema. Ha imparato ad accettare le scuse, ad ascoltare sempre le due versioni di ogni storia, e ha assorbito con grande equilibrio la lezione del #MeToo: «Dobbiamo fare in modo che finisca per tutti, attraverso il controllo e la giustizia, non con il discredito e il pubblico ludibrio». È madre adottiva di 3 ragazzi adolescenti che educa alla gentilezza, ma sa che non basta: «Insegnanti, sistemi scolastici, pediatri, devono essere tutti preparati meglio». Non esiste una soluzione facile, la verità cambia ogni giorno. E niente rimane davvero imperdonabile.