Ah Sigourney Weaver! Quanto mi è sempre piaciuta! Sono perciò felice che la Mostra del Cinema di Venezia le conferisca quest’anno il Leone d’oro alla carriera. Ci voleva! La ragione? Sigourney è unica, diversa, elegante, intelligente.

Sigourney Weaver sullo schermo

Avete presente il luogotenente Ellen Ripley di Alien (1979), la posseduta Dana Barrett di Ghostbusters (1984), la coraggiosa Dian Fossey di Gorilla nella nebbia (1988), l’insopportabile Katharine Parker di Una donna in carriera (1988), l’indomita Paulina Escobar di La morte e la fanciulla (1994) o, ancora, l’annoiata Janey Carver di Tempesta di ghiaccio (1997)? Se avete visto uno di questi film, ve la ricorderete. Anche se per un piccolo dettaglio. Anche se li avete visti tanti anni fa.

Anzi, li ricordate proprio perché c’era lei, con quella faccia squadrata e aristocratica, quello sguardo ironico e tagliente che non ammette replica. Certo, Sigourney nasce con (e rimane per sempre) il luogotenente Ripley di Alien: una “scream queen” spaziale, al punto che quando James Cameron girerà molti decenni dopo il super kolossal science fiction Avatar (2009) chiamerà lei a impersonare la dottoressa Grace sul pianeta Pandora.

Sigourney Weaver nel film “Gorilla nella nebbia” (1988). Foto Ipa

Il film Alien

Ma torniamo ad Alien: correva l’anno 1979 e sugli schermi usciva questo strano, terrificante horror di fantascienza per la regia di Ridley Scott. Sull’astronave, dal nome molto simbolico Mother, a un certo punto, tra tutti gli altri personaggi della crew, emergeva lei: bella, alta, androgina, determinata, forte, volitiva, se la vedeva a colpi di lanciafiamme col mostro generato dalla fantasia dell’artista svizzero Giger. Sbavava letteralmente l’alieno dai denti di acciaio mentre lei si spogliava in mutande e canotta nella navetta che l’avrebbe portata in salvo.

E Natalia Aspesi, su la Repubblica, scrisse un lungo articolo in cui salutava la nascita di una nuova eroina, di una donna capace di affrontare la solitudine dello spazio (e non solo), di combattere la paura e i peggiori incubi senza rinunciare alla sua parte gentile e anche un po’ materna. Ripley infatti, nella fuga, si portava dietro costantemente la gabbietta per metterci dentro il suo micio di nome Jonesy. E lo chiamava in mezzo all’oscurità: Jonesy, Jonesy… Quale pazza avrebbe perso tempo per cercare il gatto mentre l’astronave stava per esplodere?

Sigourney Weaver nel film Alien (1975). Foto Ipa

I ruoli femminili a Hollywood

Nessuna. Tranne lei. Non era una Rambo incazzata o una ragazzotta furibonda che si lasciava andare a una crisi di nervi al momento buono. Era una donna come tante che tirava fuori il suo talento per sopravvivere. E nessuna, dico nessuna, che abbia visto all’epoca quel film l’ha più dimenticata. Sigourney stessa ha detto: «Mi fa impazzire di rabbia quando leggo di ruoli femminili in film d’azione dove all’improvviso la protagonista ha un crollo nervoso: serve solo a ricordare al pubblico che è una donna… Forse ho dato il mio contributo a cambiare qualcosa, ma la strada è ancora lunga». Di Alien, poi, ne ha fatti altri 3 e per il terzo ha strappato un contratto di 11 milioni di dollari, oltre a una percentuale sugli incassi: una cifra superiore all’intero budget del primo film della saga.

Gli esordi di Sigourney Weaver

E pensare che quando ottenne la parte era una sconosciuta, o quasi. Sigourney nasce bene, proviene dalle classi alte. Prima di diventare un potente produttore, il padre Sylvester, detto Pat, di origini scozzesi, è stato un pioniere della tv. La madre, Desiree Mary Lucy Hawkins, era un’attrice inglese, nome d’arte Elizabeth Inglis: lavorò nei Trentanove scalini di Alfred Hitchcock, poi fu scelta da William Wyler accanto a Bette Davis in Ombre malesi e infine abbandonò le scene quando sposò Sylvester. Lo zio Winstead “Doodles” Weaver, musicista, scrittore e pure attore, aveva lavorato a sua volta per Hitchcock e Frank Capra. Così, quando da adolescente Sigourney incomincia a pensare di fare l’attrice, il suo pedigree le fornisce un’entrata non da poco.

L’altezza

Ma c’è un “ma”. La ragazza, a 11 anni, è alta un metro e 79, cosa che ha un impatto negativo sulla sua autostima. «Mi sentivo come un ragno gigante e pensavo che con quell’altezza non sarei mai riuscita a recitare» ha raccontato. Finita la scuola, affascinata dalla cultura ebraica, trascorre un anno come volontaria in un kibbutz, poi si iscrive prima a Stanford e poi alla Yale School of Drama, fucina di talenti dove sono passati anche Meryl Streep e Tommy Lee Jones. I suoi insegnanti non vanno pazzi per lei. Sigourney è testona e va avanti: debutta in Io e Annie di Woody Allen (1977), alla paga simbolica di 50 dollari, fa la gavetta a teatro e in modeste particine.

Dirà con ironia: «Ho perso molti ruoli a causa dell’altezza. Il problema è che quasi tutti i produttori sono bassi e non sono mai entrata nella categoria delle loro fantasie sessuali». Una volta, pur di essere scritturata, arrivò a proporre di dipingere le scarpe sui suoi piedi per apparire più bassa. Così quando la chiamarono per Alien, a 30 anni, non era proprio dell’idea. Prima la mandarono al provino a un indirizzo sbagliato, poi, quando incontrò Ridley Scott, dall’altro del suo metro e 82, si mise a discutere con insistenza su ciò che non andava nella sceneggiatura. Scott capì che Ripley era lei e la convocò a Londra facendo costruire in fretta e furia parte della scenografia per poterla calare nelle atmosfere della storia.

Sigourney Weaver per sempre

Sigourney ha interpretato più di 60 film, ha ricevuto 3 nomination agli Oscar e 7 ai Golden Globe, ha fatto teatro tutta la vita arrivando a fondarne uno, The Flea Theater, insieme al marito, il regista teatrale Jim Simpson, conosciuto a Yale e sposato nel 1984, da cui ha avuto una figlia, Charlotte, e con cui ha formato una delle coppie più solide e felici del mondo dello spettacolo. Non si è mai rifatta nemmeno un centimetro di pelle malgrado i suoi 74 anni, è una democratica convinta fin dai tempi in cui a Stanford «ero alla guida di molti cortei contro la guerra del Vietnam. Non dimenticate che il napalm è stato inventato proprio dai ricercatori di quell’università».

Refrattaria a Hollywood e a tutte le sue mode, colta e low profile per nascita ed educazione, ha avuto solo un vezzo: cambiare il suo vero nome Susan Alexandra in Sigourney, preso da un personaggio del Grande Gatsby, romanzo amatissimo dai genitori. «Detestavo i diminutivi, quando ho cambiato il mio nome speravo di non essere più Susi o Sue; ma deve essere il mio destino, perché ora mi chiamano tutti Sig o Sissy». Detto fra noi: meglio Sig che Sissy. E allora, viva Sig! E lunga vita a Sig!