La serie per cui tutti sembrano impazziti, Squid Game, nove episodi su Netflix, in poche settimane ha fatto crescere la febbre degli “hunger games” tra gli appassionati: è la più vista attualmente sulla piattaforma streaming. Musiche e sequenze d’azione, per gli amanti del genere, sono ciò che fanno di questa serie un vero e proprio “terremoto globale”. Forse ancora di più della Casa di carta, Squid Game, col suo black-humor, riesce a scuotere gli animi della gente attraverso il ricorso alla violenza estrema che, il suo creatore, il cinquantenne coreano Hwang Dong-hyuk, utilizza come strategia per mettere in luce le disuguaglianze sociali.

Pensate che, in origine, si trattava di uno script per il grande schermo: Dong-hyuk ha raccontato che l’idea gli era venuta mentre viveva con la madre e la nonna, ma che a un certo punto dovette purtroppo interrompere la scrittura per mancanza di soldi tanto da dover decidere di vendere per poco più di 500 euro il suo computer portatile. Il soggetto, ispirato ai fumetti d’animazione giapponese, e risalente al 2008, si è invece trasformato, grazie anche all’introduzione di personaggi femminili che inizialmente non erano contemplati, in un vero e proprio successo globale. «Il nostro obiettivo era un pubblico internazionale, globale ma certo non avremmo mai immaginato questa reazione», racconta sconcertato e felice Dong-hyuk. E certo ha iscattato ampiamente quel Pc da cui aveva dovuto, suo malgrado, separarsi.

Netflix
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La trama (no spoiler)

Squid Game racconta la storia di Seong Gi-hun, un uomo stravolto da una serie di fallimenti professionali e sentimentali. Fa l’autista a tempo perso; è tornato a vivere con la madre dopo il divorzio dalla moglie, che nel frattempo si è risposata; e ha una bambina che adora ma alla quale non riesce neppure a fare un regalo di compleanno perché non se lo può permettere con il suo misero stipendio. Sempre a corto di denaro, ogni tanto ruba spiccioli di nascosto a sua madre per giocarli alle scommesse dei cavalli. Il suo punto di non ritorno arriva quando scopre che potrebbe perdere sua figlia per sempre perché l’ex moglie e il marito hanno intenzione di trasferirsi negli Stati Uniti: deve guadagnare dei soldi per dimostrare al giudice che può occuparsi di sua figlia. E l’occasione gli arriva da un misterioso uomo che gli offre l’opportunità della vita: partecipare ad un gioco di cui si sa pochissimo se non che si possono guadagnare molti soldi.

456 persone (tutte ai margini della società) si ritrovano a partecipare al “game” che intrattiene alcuni ricchi annoiati che scommettono sui concorrenti. Devono superare sei prove “da bambini”: due tre stella o il gioco del calamaro, appunto, ma non fatevi ingannare dai ricordi d’infanzia perché la posta in gioco è alta. Chi vince sopravvive, chi perde viene ucciso subito. L’ultimo a restare in campo conquista un premio in won che equivale a circa 40 milioni di dollari.

Il fenomeno Vans

Sono bastate poche puntate di Squid Game per archiviare le tanto amate tute rosse con maschera di Dalì e puntare sulla versione verde bosco con tanto di numero cucito sul petto.
Secondo quanto riportato da Lyst, il giorno successivo alla messa in onda della serie, la ricerca di tute sportive dall’allure vintage, è schizzata al 97%. Un numero certo che dà da pensare su quanto le serie televisive infuiscano sulle nostre scelte di stile, ma mai quanto quelli registrati dalle slip on bianche firmate Vans, le scarpe indossate dai giocatori della fortunata serie. Le ricerche delle “squid shoes” sono infatti balzate alle stelle, con vendite che hanno registrato un +145%. Alzi la mano chi ha guardato almeno una puntata e ha detto “Le voglio anch’io”!

I premi

In Italia la serie è disponibile solo in coreano con sottotitoli italiani (visto il successo non c’è stato il tempo di doppiarla) ma si può vedere Squid Game in inglese, francese, spagnolo e tedesco. Intanto in America c’è già chi vorrebbe che la serie entrasse nella corsa agli Emmy 2022 creando quindi un precedente storico: se vincesse, infatti, potrebbe essere la prima serie totalmente parlata in coreano a vincere un premio americano.
Insomma, nella nostra nuova cultura digitale cinematografica poco importa il Paese d’origine: contano solo forma e contenuto.