«Look what you made me do», guardate cosa mi avete fatto fare. Potrebbe essere il titolo del post che Taylor Swift ha pubblicato su Instagram, lo scorso 7 ottobre, per annunciare il suo voto per i candidati democratici alle prossime elezioni politiche americane, quelle di metà mandato. A due anni dall’elezione del presidente, infatti, il 6 novembre negli Stati Uniti si tornerà a votare per stabilire la composizione delle due camere. Un appuntamento particolarmente importante, quest’anno, perché il Partito Democratico potrebbe ribaltare il risultato del 2016, e quindi affrontare con maggiore incisività i prossimi due anni di amministrazione Trump.
Perché è una notizia?
Certo non stupisce il fatto che una popstar si esponga politicamente. Negli ultimi anni, in America, una diffusa percezione di emergenza democratica ha portato tutte le celebrità maggiori a esprimere opinioni più o meno circostanziate sui fatti d’attualità. Non solo Beyoncé, Lena Dunham e Oprah Winfrey, ma anche ex-enfant terrible come Miley Cyrus o principesse Disney promosse eroine come Ariana Grande. Con alcune clamorose eccezioni (per esempio Kanye West, e in un certo senso il presidente stesso) lo star system americano di serie A non prevede attivisti trumpiani. E in questo vuoto è cresciuto l’ostinato silenzio di Taylor Swift.
Cosa significava quel silenzio?
Nessuno lo sa. La convinzione di molti è che Taylor Swift, che ha grande seguito tra i conservatori degli stati del sud (dopotutto ha esordito come bambina prodigio del country) non volesse alienare le simpatie dei fan che hanno votato per Trump. Addirittura negli ambienti più estremisti Swift era considerata una Nazi Princess, la ragazza copertina del suprematismo bianco. E questo nonostante le rare prese di posizione siano sempre state a sostegno di diritti umani e civili, pari opportunità, regolamentazione del porto d’armi. Ma l’opinione pubblica illuminata non le ha mai perdonato di non aver pubblicamente dichiarato #ImWithHer (sto con lei) durante la campagna elettorale di Hillary Clinton. E negli Stati Polarizzati d’America, se non sei “con noi”, sei “contro di noi”.
Perché proprio adesso?
La risposta tecnica è che scadevano i termini per l’iscrizione alle liste elettorale (in America per votare è necessario registrarsi prima) e i democratici hanno bisogno di nuove leve per vincere. La risposta di Taylor Swift è che in questi due anni sono successe «tante cose, nella mia vita e nel mondo» che l’hanno convinta a superare la sua «riluttanza». Una di queste è senz’altro aver portato in giudizio, nel 2017 e cioè prima del dilagare femminista del #MeToo, il dj colpevole di averle palpato il sedere. Ma la più importante è la programmatica ricostruzione della sua reputazione. Non certo della popolarità, perché il tour appena concluso negli USA è stato il più remunerativo di sempre per un’artista donna, e ai recenti American Awards ha vinto 4 premi per un totale di 23 in carriera: come nessuno prima. Taylor Swift non ha bisogno di soldi, né di pubblicità. Ma voleva un posto al tavolo dei grandi, e rimanendo neutrale rischiava di perdere più di quanto guadagnava.
Ha funzionato?
Apparentemente sì, eccome. I grandi hanno preso nota. I repubblicani hanno espresso dissenso e indignazione. Donald Trump le ha dedicato un tweet: «Adesso la musica di Taylor mi piace il 25% in meno» (neanche troppo offensivo, considerati gli standard). Celebrità in prima linea come Katy Perry, Alyssa Milano e Reese Whiterspoon hanno approvato il post con il sigillo del “mi piace”. Ma soprattutto i fan hanno seguito il buon esempio. Nelle 48 ore successive al messaggio di Taylor Swift su Instagram, il sito Vote.org (quello che serve per la registrazione al voto) ha avuto un picco di 102.000 nuovi iscritti sotto i 30 anni. Non ci sono prove del rapporto causa/effetto, ma è un numero che può fare la differenza. Mica male, per essere un esordio.