Il nuovo film di Valeria Bruni Tedeschi
Una tempesta perfetta – e forse anche crudele – ha travolto Valeria Bruni Tedeschi alla vigilia dell’uscita di “Forever Young – Les Amandiers”, il suo ultimo, bellissimo film da regista. Il caso riguarda Sofiane Bennacer, il 25enne attore protagonista ora sotto indagine per violenze sessuali, come rivelato dal giornale francese Libération.
«Sono stata io stessa vittima di abusi, durante l’infanzia, e conosco il dolore di non essere stata presa sul serio» ha dichiarato la 58enne attrice-regista italofrancese (quando l’intervista ora in edicola su Donna Moderna era già in stampa). «Tuttavia sono sbalordita davanti a un linciaggio mediatico che non ha alcun rispetto per il principio di presunzione di innocenza». Ha aggiunto poi di aver “fortemente voluto” Sofiane, perfetto per il ruolo, nonostante girassero voci sul suo conto. E di avere iniziato, molto dopo le riprese, una relazione amorosa con lui. Rischia di subire per questo anche lei, una donna, la condanna senza distinguo del #metoo?
Pasionaria da sempre, Valeria Bruni Tedeschi ha raccontato nei film le sue stesse montagne russe tra riso e pianto. «Ho bisogno di ridere della nostra esistenza e delle nostre miserie. Ne ho bisogno come dell’ossigeno». Nel discorso per il David di Donatello vinto come migliore attrice (per “La pazza gioia” di Paolo Virzì, 2017) aveva ringraziato nell’ilarità generale “la mia povera psicanalista”, “la bambina che all’asilo mi è diventata amica dandomi un pezzo della sua focaccia” e “gli uomini che mi hanno amato ma anche quelli che mi hanno abbandonato”.
“Forever Young – Les Amandiers”: il film
Valeria Bruni Tedeschi si è messa a nudo, nel bene e nel male, in tutti i suoi titoli da regista (“È più facile per un cammello…”, “Attrici”, “Un castello in Italia”, “I villeggianti”) e con il quinto, “Forever Young – Les Amandiers”, racconta gli anni della giovinezza, quando frequentava L’école des Amandiers di Nanterre, fondata dal regista Patrice Chéreau. Stavolta non appare sul grande schermo. Il suo alter ego è Nadia Tereszkiewicz, l’amore perduto di allora ha il volto di Bennacer, Chéreau è interpretato dall’ex compagno Louis Garrel (insieme nel 2009 hanno adottato Oumy, 14 anni). «Nel film c’è tutta l’energia dei vent’anni ma anche la tragedia: la droga e l’Aids hanno portato via molte persone in quegli anni. E c’è l’attrazione di due forze opposte: la vita e la morte».
Intervista a Valeria Bruni Tedeschi
Com’è nato il desiderio di raccontare i suoi vent’anni, per quanto romanzati?
«In realtà è stato un amico a darmi l’idea e pensandoci mi è apparso come qualcosa di ovvio. L’école des Amandiers era una scuola alternativa ed è stata per me un’esperienza fondamentale, nel lavoro e nella vita. Tra il 1985 e il 1990 era l’epicentro del mondo culturale, ci ruotavano intorno i più grandi talenti. Il drammaturgo Bernard-Marie Koltès pranzava alla mensa, Catherine Deneuve veniva a vedere gli studenti lavorare. Mi ha lasciato un’impronta profonda».
Ha anche rivisto e intervistato i suoi compagni di corso. Com’è andata?
«È stata una gioia rivederli, sembrava che il tempo non fosse passato. Sono stati tutti molto generosi con le loro storie, preziosissime per la sceneggiatura, anche se le abbiamo modificate e i loro nomi non appaiono. Il personaggio di Etienne è invece ispirato a qualcuno della mia giovinezza che non è più qui».
Prova nostalgia?
«Ho evitato l’approccio nostalgico. La storia è basata appunto su ricordi di più persone, anche delle sceneggiatrici Noémie Lvovsky e Agnès De Sacy. Poi però ci siamo prese la libertà di romanzare. Il nostro lavoro è liberare l’immaginazione, divertirci senza tabù, filtrare la memoria».
Nel film i ragazzi vanno all’Actors Studio di New York. Verità o finzione?
«È successo davvero. Chéreau ci mandò in America perché allora era il centro della recitazione moderna e il metodo di Lee Strasberg, per me, fu come una finestra sull’orizzonte. Un metodo gentile, mentre Chéreau era più brutale, pretendeva tantissimo. Esigente e inesorabile. Due parole che mi hanno a accompagnato tutta la vita».
Accompagnate dall’autoironia: quella che radici ha?
«Anche quella viene da Chéreau: amava ridere, non era serioso, semmai irriverente. E poi la tragicommedia fa parte del cinema italiano, è nel mio dna: che io reciti o diriga, ho bisogno di questa miscela».
I suoi film sono tutti personali: dov’èil confine tra vita e lavoro?
«È come se il lavoro fosse un piccolo pianeta a parte. Prima ci stavo sempre, ora ho imparato a staccare tornando alla mia quotidianità e ai figli. Poi quando è il momento ci ritorno. Con gli anni è diventato più facile andare avanti e indietro».
Che differenze trova fra la sua generazione e quella dei giovani attori che ha diretto?
«Noi a vent’anni vedevamo i nostri maestri come dei dell’Olimpo ma allo stesso tempo eravamo un po’ folli, incoscienti, anche insolenti. Oggi invece vedo una corazza di paure, di pressioni per la carriera. Hanno tutti un agente, curano la rete di contatti, temono di sbagliare mentre noi ci sentivamo liberi di farlo. Li ho incoraggiati ad abbandonarsi e a perdere il controllo: per crescere bisogna uscire dai binari. Ma forse eravamo più trasgressivi perché c’erano più regole da trasgredire».
Insegna questa libertà anche ai suoi figli? (Oltre a Oumy, 14 anni, di origine senegalese, ha adottato Noè di 8, vietnamita).
«Oddio, con i figli è diverso. E poi io sono contraddittoria. Ho incoraggiato Oumy a girare il suo primo film da protagonista, dove recita e danza: “Neneh Superstar” di Ramzi Ben Sliman, che in Francia esce a gennaio. Ora ho paura di aver sbagliato, temo che sia troppo giovane, anche per l’esposizione mediatica. Per fortuna c’è Louis che sdrammatizza».
Louis Garrel, il suo ex: com’è oggi lavorare con lui?
«Abbiamo sempre mantenuto un rapporto, per nostra figlia, e questa collaborazione è un’evoluzione. Il ruolo di Chéreau era giusto per lui, per il legame che ha con il teatro e per il fatto che anche lui è un regista. E il suo umorismo, che è unico e che trovo irresistibile, ha reso le sue scene sorprendenti e personali».
Lei ha adottato Noè da single (in Francia è consentito, ndr): una scelta coraggiosa.
«Non mi pare proprio, anzi è esattamente il contrario. Sono i miei figli a darmi forza. Ricordo un giorno che Oumy mi ha detto: “Mamma, sei il mio coraggio” ma io potrei dire lo stesso. Ho avuto vicino tanti amici, e senza di loro forse non avrei fatto questa scelta. Poi quando un bambino arriva è tuo figlio e basta, non pensi più che è stata un’adozione».
Oumy è apparsa anche nel suo film “I villeggianti”. Sul set ci sono spesso anche sua madre, Marisa Borini, o la sua collega e amica Valeria Golino. È importante lavorare con persone che sente vicine?
«Importantissimo. Ciò che conta per me è lavorare, parlare, ridere, mangiare, divertirsi con le persone con cui hai voglia di stare. Scelgo i progetti anche per stare con chi altrimenti non vedrei spesso, come Valeria. Ora sto scoprendo le sue qualità di regista sul set della serie “L’arte della gioia”, diretta da lei (tratta da Goliarda Sapienza, per Sky). Quanto a mia madre è bravissima, allegra, e dice sì a ogni mia proposta. A 92 anni mi ha detto: “Peccato non avere più occasione di innamorarmi”. Del resto è quello il motore universale per tutti, a qualunque età».