Un sole accecante filtra dalla finestra di casa sua. Il collegamento su Skype è ballerino e prima che salti, butto uno sguardo furtivo tra le cose che si intravedono alle sue spalle. Cerco tracce della stanza che descrive nei fumetti, incasinata, piena di disegni e involucri di plumcake, con i calzini buttati sui divani e un coccodrillo finto di nome Rosario che gli tiene compagnia.
Di sicuro lui di compagnia ce ne ha fatta parecchia durante il lockdown, con le sue apparizioni a Propaganda live e le “Rebibbia quarantine”, il reportage drammatico della quarantena nel quartiere di Roma Est dove ambienta le sue storie grottesche popolate da personaggi carichi di insicurezze che fanno crepare dal ridere e riflettere. È per questo che Michele Rech, in arte Zerocalcare, trentasette anni freschi freschi, piace a tutti senza limiti d’età.
Con due libri in classifica “Scheletri” e “A babbo morto” (entrambi editi da Bao Publishing), un film d’animazione in arrivo su Netflix il 17 novembre, da lui scritto e diretto “Strappare lungo i bordi” (dove ritroveremo il Secco, Sarah e l’Armadillo, la cui voce sarà di Valerio Mastandrea) Zerocalcare ha una risposta intelligente e ironica su tutto, anche sui drammi come la pandemia.
Guarda il teaser di “Strappare lungo i bordi”:
Come nasce il tuo nome d’arte?
Avevo 17 anni e volevo partecipare a una polemica su un forum, ma prima dovevo scegliere un nickname. In quel momento stavano passando la pubblicità di un ferro da stiro, Zerocal o Zerocalcare e l’ho scelto perché è stato il primo che mi è venuto in mente. Se avessi saputo che a 37 anni mi sarei ancora presentato come Zerocalcare probabilmente avrei scelto un nome più intelligente!
La tua passione per i fumetti quando è nata?
Appartengo alla generazione dei lettori di Topolino e del Corriere dei Piccoli. Non ricordo un momento della mia vita in cui non leggevo i fumetti. Ho cominciato a disegnare le vignette da piccolissimo, insieme a un mio amico di Rebibbia. Intorno ai dieci anni ho copiato una storia da Dragonball che aveva come protagonisti i miei compagni di classe e, nella veste dei cattivi, i professori. Intorno ai sedici anni ho cominciato a disegnare fumetti ispirati al mondo del punk. Ho disegnato locandine e copertine dei dischi delle band. Il primo fumetto che è uscito fuori dai circuiti del punk è stata la cronaca della mia esperienza al G8 di Genova.
Quella del G8 è un’esperienza che ricorre nei tuoi fumetti.
Ho preso una pizza in faccia e uno spintone dalla forestale, un aneddoto che ripensandoci fa pure ridere perché le guardie forestali mi sono sempre sembrate le persone più innocue del mondo. Sicuramente è stata un’epifania nel mio rapporto con le autorità in generale.
Sei un autodidatta?
Si e no. Ho cominciato a disegnare da autodidatta, poi a diciotto anni ho iniziato a frequentare la Scuola Romana del Fumetto che, in realtà, non mi ha insegnato tanto a disegnare le anatomie e le prospettive, che ancora non sono in grado di fare, quanto ad ad uscire dalla comfort zone per cimentarmi con soggetti che non avrei mai disegnato, tipo le macchine. Nel complesso posso dire che la scuola del fumetto mi ha reso un disegnatore più completo.
A quali autori ti ispiri?
“Lo scontro quotidiano” di Manù Larcenet mi ha dato la spinta a raccontare le mie storie tutt’altro che rocambolesche, basate sulle piccole cose della vita. Dal punto di vista della scrittura letteraria leggo cose molto lontane da quelle che disegno. Uno dei miei autori preferiti è J. R. Lansdale perché racconta cose a volte molto crude ma lo fa sempre con molta ironia.
La globalizzazione, il consumismo, l’integrazione sociale e il mondo del lavoro. Continuano a dirti tanto questi temi oppure li hai spolpati abbastanza?
Hai voglia a spolparli! I cambiamenti demografici, la crescita di tutta una serie di disuguaglianze anche a causa della pandemia, sono argomenti sempre più importanti che avranno sempre di più cose da raccontare alle persone.
Tra un po’ vedremo il tuo lavoro, quello che hai scritto e diretto. Come ti sei sentito nei panni del regista?
Era tanto tempo che giravo attorno all’animazione, anche divertendomi molto a sperimentare, facendo tutto da solo. Al tempo stesso mi sarebbe piaciuto alzare l’asticella, sfruttare di più il mezzo video in termini di regia, di movimento, mantenendo però il mio linguaggio e i miei temi e continuando ad avere il controllo totale sulla storia. In questo senso Netflix mi ha messo in condizione di lavorare in un modo che tiene insieme tutti i piani: libertà assoluta nei contenuti e nei linguaggi, possibilità di collaborare con persone più capaci di me, per raccontare una storia su una piattaforma accessibile ormai praticamente a tutti. Speriamo che quando uscirà la serie il mondo esista ancora più o meno come lo conosciamo.
Da ex bambino timido come vivi la notorietà?
Con grande vergogna e imbarazzo anche se parliamo di una notorietà relativa. Non ho i paparazzi che mi perseguitano, tutt’al più qualcuno che incontro per strada mi riconosce e in genere non so cosa dirgli.
A proposito, vivi sempre a Rebibbia e hai gli stessi amici?
Sì. Gli amici sono quelli di dieci anni fa, gli stessi che mi prendono in giro sui social e scrivono cose assurde sul mio conto, fanno dei fotomontaggi e si divertono a inventare notizie false. Non leggono i miei fumetti e se gli racconto qualcosa sul mio lavoro mi dicono che non ne possono più!
Dopo un periodo di crisi negli anni Ottanta, hai contribuito a riportare a galla il graphic novel. Oggi gli italiani come percepiscono questo genere?
Le persone hanno capito che il fumetto è adatto ad ogni tema: ci si sono possono scrivere saggi, interviste ecc. Ormai ogni casa editrice ha la sua collana di fumetti e ogni giornale ha il suo fumettista. I giovani però non leggono quasi più i fumetti, preferiscono gli Ipad, gli smartphone. Ora come ora il fumetto è un linguaggio intermedio; credo che la maggior parte dei miei lettori abbia tra i venticinque e i quarantacinque anni.
Che consigli daresti a un giovane fumettista?
Tanta autodisciplina. Tutti abbiamo la tendenza a iniziare una storia e poi a pagina cinque ci stufiamo, ne cominciamo un’altra e smettiamo pure quella. Per fare questo lavoro bisogna arrivare fino in fondo alle storie perché nessuno vorrà mai leggere qualcosa finché non sarà finito.