Del calciatore Zlatan Ibrahimovic sappiamo più o meno tutto. L’attaccante che a 40 anni compiuti, quando tutti i big della sua generazione hanno già appeso gli scarpini al chiodo da tempo, tiene con i suoi gol e il suo carisma il Milan in testa alla classifica di serie A. Il campione che ha indossato le maglie di quasi tutti i top club europei, che non di rado hanno visto combaciare le loro migliori stagioni con il suo passaggio: Ajax, Juventus, Barcellona, Inter.
Il bomber da 400 reti, l’unico in attività ad averle segnate in 4 decenni diversi. Il fuoriclasse che in carriera ha alzato 31 trofei e collezionato più soprannomi di un pugile: Re Scorpione, Cecchino, Mister Taekwondo, Ibracadabra. Dell’uomo conosciamo solo quello che ci ha permesso di vedere lui fino a oggi, e che è diretta conseguenza della tracotanza fisica e mentale esibita in campo: guadagni da capogiro, liti con compagni, avversari e allenatori, interviste mai banali, auto di grossa cilindrata e fughe in moto nella notte per raggiungere il palco di Sanremo, dove all’ultimo Festival ha duettato con Amadeus e gli altri ospiti rendendo indistinguibili persona e personaggio.
Mancava il romanzo di formazione, e ora a colmare il vuoto arriva Zlatan, nelle sale italiane dall’11 novembre. Diretto da Jan Sorgen e tratto in parte dall’autobiografia uscita nel 2011, il film non si concentra sulla storia sportiva ma sugli anni trascorsi tra Svezia e Olanda prima della sua consacrazione. Gli anni che, scopriamo a poco a poco, contribuiranno a costruire un’identità più complessa e tormentata di come appare.
La vita di Ibrahimovic
«Il frigo era sempre vuoto». Zlatan Ibrahimovic nasce nel 1981 a Malmö, Svezia meridionale, ma è figlio in tutti i sensi delle lacerazioni che già attraversavano la Jugoslavia un decennio prima della guerra civile. I genitori arrivano da lì: papà Sefik è bosniaco e musulmano, mamma Jurka croata e cattolica. Il matrimonio non funziona e lei se ne va quando Zlatan è poco più che neonato.
Dai 7 agli 11 anni – il film inizia qui – il piccolo Ibra vede il padre spaccarsi la schiena in cantiere e poi riempire l’appartamento di lattine di birra prese al discount, mentre ascolta musica balcanica dal walkman e mette in muto la tv che mostra la guerra insanguinare le radici della sua famiglia. In dispensa ci sono solo pane, burro e alcolici. Unico sfizio, quando il ragazzino comincia a mettersi in luce nella locale scuola calcio per immigrati, il succo multivitaminico. «Compravamo la confezione da 4 litri, al negozio arabo di sotto, perché costava meno» rivela Zlatan nell’autobiografia. «C’era una sofferenza in quei momenti che non dimenticherò mai. Da allora ho la fissa del frigo che deve essere sempre pieno, domandatelo a Helena!».
La moglie Helena, ex miss Svezia
Helena è sua moglie, ex modella ed ex miss Svezia, sposata nel 2001 e madre dei suoi 2 figli Max e Vincent, 15 e 13 anni vissuti il più possibile lontano dai riflettori. Giocano nelle giovanili dell’Hammarby, squadra della quale Ibra è diventato azionista, ma sulle maglie hanno scritto Seger, il cognome della madre. Si devono a Max e Vincent anche le sole lacrime versate dal padre in pubblico, quando lo scorso anno durante una conferenza stampa si commosse parlando del lockdown che li ha costretti a stare lontani da lui per mesi.
«Sui bravi ragazzi non si scrivono libri». Padri, figli, aspirazioni, cura. È una delle chiavi di lettura di Zlatan. Dove il cammino calcistico della giovane promessa raddrizza anche quello del genitore: con l’ingresso del ragazzo nella primavera del Malmö, papà Sefik inizia a seguirlo tutti i giorni. Se pusher, vetri rotti e idiomi slavi fanno sembrare il giardino condominiale un set di Emir Kusturica, l’interno dell’appartamento diventa un archivio di maglie, filmati e aneddoti. Ibra che a 13 anni entra in campo con la squadra sotto di 4 gol e ne segna 6. Ibra che non passa la palla ai compagni. Ibra che dopo aver saputo della sua promozione in prima squadra festeggia rubando una bicicletta e urla: «Sono zingaro!». Non nell’accezione bassamente razzista del termine, che detterà legge negli stadi italiani, ma nel senso di scavezzacollo, ipercinetico, autoironico, un Peter Pan di periferia così sicuro di sé da dire ai suoi compagni di squadra: «Su voi bravi ragazzi non scriveranno mai libri». Spacconeria e autostima, come in una delle prime interviste, quando alla domanda di rito sui suoi modelli non risponde con il nome di un calciatore, ma citando Bruce Lee e Muhammad Alì.
«Volevo soltanto essere il migliore»
Quello che non si vede nel film, dicevamo, è storia più recente e più nota. Prima l’incontro in una pizzeria con Mino Raiola, il procuratore più cinico che esista ma che nell’autofiction diventa una via di mezzo fra il Bubba di Forrest Gump e un santone indiano, capace di spianargli la strada a suon di frasi motivazionali («Se sei soddisfatto di ciò che hai, stai fallendo»). Poi la scalata all’Olimpo del pallone, dal quale Zlatan pare non voler scendere a dispetto dell’anagrafe. Anzi, matura: come se negli ultimi anni il suo talento si fosse spogliato di qualsiasi rancore e le sue leggendarie torsioni busto-piede fossero diventate una forma d’arte superiore e imperturbabile.
Basta osservare il suo sguardo quando tira un calcio di rigore, strizzando le due piccole cicatrici sullo zigomo sinistro di cui non ha mai rivelato l’origine (al giornalista che osò domandargliela rispose: «Chiedilo a tua moglie»). O ascoltare il suo eloquio, tranquillo e lontano anni luce da quello del bambino di Malmö che non poteva permettersi un logopedista. «Da ragazzo Ibra voleva a tutti i costi essere il migliore e mettersi in mostra» ha detto Lars Lagerbäck, l’allenatore che lo ha fatto esordire nella Nazionale svedese a 19 anni. «Credo voglia le stesse cose ancora oggi, ma in modo più rilassato». Forse il segreto della sua eterna giovinezza sta tutto qui.