Quell’anno mi sono accontentata di un viaggio a chilometro zero. All’inizio dell’estate una perdita di acqua dalle tubature ci ha costretti a chiudere una settimana, per lavori di manutenzione. Ero una giovane praticante nello studio dell’architetto Scarano e mi ha chiesto di seguire muratori e idraulico, lui sarebbe andato a Rimini per un corso di aggiornamento e qualche bagno. Così la mattina presto passavo a verificare che il martello pneumatico rompesse per bene le piastrelle e poi me ne andavo in giro per i borghi del circondario, uno o due al dì. Nel pomeriggio – non sempre – tornavo a controllare lo scavo che si allungava sul pavimento, i tubi vecchi rimossi e sostituiti dai nuovi. È stato, tappa dopo tappa, un viaggio di luoghi e incontri straordinari. Zero anche il costo, oltre al chilometro. Con la sgangherata Due Cavalli all’improvviso tutto sapeva di scoperta: a volte ciò che è così prossimo risulta invisibile, per la pigrizia che prende anche i viaggiatori più avventurosi nel muovere proprio quell’unico passo. Arrivare lontano sa di eroico, guardare dietro casa ci sembra banale.
Il borgo del lunedì non l’avevo mai visitato
Corvara, incrostata al suo sperone roccioso, quasi svuotata già allora, nella seconda metà degli anni ’80. Le poche strade in salita percorribili solo a piedi, nel canto degli uccelli, nel ronzio di un bombo obeso, unico protagonista in tanta solitudine. Tra i gerani di un vaso ho trovato impigliata una foto in bianco e nero dai bordi un po’ arrotolati. Un matrimonio, forse tra gli anni ’50 e ’60. Nel velo di tulle corto alle spalle la sposa non sorrideva. Ho guardato la scalinata esterna, la facciata senza colore, la tenda a listelli, alcuni rotti o mancanti, e tutti i segni dell’abbandono. Solo il geranio era ancora vivo, lì. Nessuno a cui restituire la foto, me la sono portata via. Il pomeriggio ho telefonato all’architetto da un bar e l’ho rassicurato sull’andamento dei lavori allo studio: tutto regolare. Invece non ci ero andata e i muratori nemmeno, avrei scoperto poi.
Da Corvara ero scesa a Loreto Aprutino per la festa di San Zopito
L’avevo sempre un po’ snobbata, non mi interessava lo spettacolo di un bue condotto a inginocchiarsi davanti ai palazzi nobiliari e ai portali delle chiese. Ma Olivia aveva insistito, saremmo andate a mangiare al circolo ippico, dopo la processione. Pecorino e salumi, pane con pomodoro e mazzi di arrosticini distribuiti lungo i tavoli, la nostra tipica cena estiva. Lì ho conosciuto Pasquale, l’uomo che da sempre allevava cavalli. Gli avevano portato il bue dopo l’incendio della stalla in cui lo tenevano e lui aveva detto di sì, ma solo per un po’. Invece ne ha addestrati diversi negli anni, quello di allora si chiamava Delicato. Un nome divertente per una bestia che pesa quintali, toccante era invece la confidenza tra Pasquale e il suo allievo. Mansueto perché castrato, ma Pasquale lo definiva “dolcissimo”. Si preoccupava dell’artrosi che gli stava attaccando una zampa, delle cure inefficaci. Un sognatore, Pasquale, ancora oggi sogna di poter riportare il bue dentro la chiesa madre, a inginocchiarsi davanti alla cappella di San Zopito come 3 secoli fa, come il suo leggendario predecessore che si era inchinato al passaggio delle reliquie del santo. Non sarà facile spuntarla con il parroco polacco dalla chioma e barba bionda, prete e filosofo.
Farindola, di giovedì
Ero stata più attenta ai muratori, stavano posando il pavimento nuovo quella mattina. Dal paese di mia madre non mi aspettavo sorprese, lo conoscevo già. Lei però abitava nella contrada più remota, sotto la Pietra della Spia, la montagna. Mi raccontava che nelle notti degli inverni più rigidi i lupi raspavano sulla porta e al mattino il legno era tutto rigato dalle loro unghie. Camminavo per le viuzze e dagli interni i pochi abitanti si affacciavano, avevano sentito un rumore di passi estranei. Salutavo tutti, per educazione e per l’imbarazzo di calpestare un suolo pubblico, sì, ma pertinente alle case e curato da ognuno come proprio. «Buongiorno, signori’, di chi sei la figlia?» mi ha chiesto un’anziana vestita di nero. Gliel’ho detto e lei si è ricordata di mia madre che andava a scuola a piedi, da tanto lontano. Mi ha meravigliato che fosse rimasta così viva nella sua memoria. Ha insistito per farmi entrare in cucina, dove stava preparando fagiolini e patate. «Mangia con me, che sto sola» mi ha invitata con la voce e con gli occhi presi nella rete delle rughe. Non era possibile, però qualcosa lo dovevo accettare, aranciata e fru fru. Il suo sguardo curioso e insistente mi metteva un po’ a disagio. «Tu potevi essere la nipote mia» ha detto mentre masticavo e per poco non mi sono strozzata. «In che senso?» ho domandato cominciando a dubitare della sua lucidità. Si è alzata a rimestare nella pentola e ha abbassato la fiamma, poi è tornata a sedersi al tavolo. «Nel senso che se tua madre non lasciava mio figlio, io potevo essere tua nonna» ha precisato come se fosse ovvio. Così mi ha raccontato di quell’amore di ragazzi, nato forse da sguardi furtivi tra i banchi della chiesa alla messa della domenica. Erano stati fidanzati per 2 anni, tra i 16 e i 18 di mia madre, abbiamo calcolato. E in quei 2 anni: «Sai quante volte si è assettata a mangiare dove ti sei messa tu» ha detto nostalgica. Si era affezionata a quella ragazza di campagna minuta e tenace, nella sua fantasia era già una nuora che le avrebbe dato nipoti, appunto. Ma poi era arrivato mio padre. «E tanti saluti al povero figlio mio» ha concluso. Che secondo lei non si era mai ripreso da quella delusione, se n’era andato a lavorare a Sanremo e lì era rimasto a vivere, da scapolo. Non avrei mai immaginato che nella lontana Liguria battesse un cuore spezzato da mia madre, così tanto tempo prima. Nella mitologia familiare mio padre veniva sempre rappresentato come il suo unico amore e di quella preistoria non avevo saputo niente. Mi sono sentita quasi in colpa nei confronti di Onorina, così si chiamava, per la discendenza che le era mancata e per essere nata io al posto di una nipote sua. I saluti per mia madre me li ha dati lo stesso, che in fondo era una brava ragazza. «Dille che Onorina non se l’è scordata» ha detto spegnendo il fornello.
Appoggiata alla porta mi ha seguita con lo sguardo nel vicolo, fin quando ha potuto
Sono ripartita con la Due Cavalli bicolore, il tettuccio aperto sotto il cielo che si rannuvolava. Da una curva all’altra ero sempre più turbata, all’improvviso tutte le certezze su mia madre vacillavano. La bellezza estiva del paesaggio non mi catturava più, non le colline ricce di ulivi, non i campi di grano quasi maturo. Cos’altro ignoravo di lei? Chi era stata prima della mia nascita, prima che potessi averne memoria? I genitori, questi sconosciuti. Non mi spiegavo il silenzio sulla sua vita sentimentale, e sì che ne raccontava di storie della sua giovinezza: lupi, balli di contrada e mio padre, sempre mio padre. Come se l’innamoramento per un altro uomo che non mi aveva generata dovesse restare coperto da un pudore per me incomprensibile. Chissà di cosa aveva paura, mia madre reticente. Un tuono e le prime gocce di pioggia sul vetro e nell’abitacolo. Ho richiuso il tettuccio.