Il nuovo romanzo di Silvia Avallone

Il Cuore nero del titolo del nuovo, meraviglioso romanzo di Silvia Avallone, appena uscito per Rizzoli, è quello che batte nel petto della protagonista Emilia. È un cuore pieno di rabbia e disperazione che l’ha gettata in un precipizio da cui è difficile risalire. Anche Bruno, l’uomo di cui si innamorerà, ha un cuore nero, soffocato dal dolore. Non si può descrivere un’anima senza pensare ai tanti grigi che la compongono, alle sfumature dettate dalla vita. Ma, sembra dirci la scrittrice, il nero si può scalfire, se ne può uscire: c’è sempre un futuro, anche se il passato non si può cancellare. Emilia è stata una detenuta in un carcere minorile per 14 anni, ma è stata anche studentessa, figlia, amica… Dopo la prigione, a 31 anni, trova rifugio a Sassaia, un borgo isolato, che si raggiunge solo a piedi attraverso un sentiero tra i boschi. «La storia di Emilia, l’idea di Sassaia, la relazione con Bruno le coltivavo da tempo» mi dice Silvia Avallone. «Volevo raccontare di una giovane donna che ha compiuto qualcosa di terribile durante l’adolescenza e che si ritrova, dopo aver scontato la sua pena, a dover ricominciare. Non potevo raccontarla in prima persona perché sarebbe stato troppo. Così l’ho fatto attraverso gli occhi di un uomo che si innamora di lei senza sapere cosa ha fatto e che poi si ritrova in una situazione terribile – per lui ma anche per il lettore – perché quando scopre la verità ormai si è innamorato».

Un romanzo sul ricominciare a vivere

Ma come può un’adolescente che ha fatto una cosa terribile ricominciare a vivere? Come può fuggire dai sensi di colpa e dalla vergogna? «Ricominciare è un dovere se si vuole vivere. È una grande sfida per una persona che ha compiuto un male irreparabile e ha pagato, anche se sappiamo che il male comunque non si ripara. Emilia è viva: è il suo reato, ma è anche tanto altro. Volevo interrogare questa complessità». L’autrice non sapeva esattamente quale fosse il delitto, mi spiega, «ci sono arrivata scrivendo». E comunque non è importante saperlo (lo scopriamo un po’ alla volta, inoltrandoci nella storia). «Perché la letteratura è il contrario del pregiudizio. Funziona all’opposto del clamore della cronaca a caldo, che fa tanto rumore e poi dimentica. La letteratura è il luogo dello scavo, delle domande, di chi non ha soluzioni. È il luogo del prendersi tempo: senza quello non si va a fondo. Per questo è anche il luogo della ricerca, della solidarietà e dell’empatia. Persino quando sembrano impossibili». Il male, mi ricorda Silvia Avallone, è un tema spesso affrontato in letteratura e lei ci è arrivata attraverso i classici. Cita Delitto e castigo di Dostoevskij: «Lì per la prima volta ho sperimentato questa contraddizione: provare orrore per un personaggio che compie l’irreparabile e allo stesso tempo tifare per la sua umanità».

È la storia di Emilia, 14 anni dentro a un carcere minorile

Nella genesi del libro è nata prima Emilia, poi il posto dove poteva andare dopo il carcere, Sassaia, che le ha suggerito anche l’identità di Bruno. Dopo è arrivato l’incontro con la realtà. «E la conoscenza del luogo, il carcere minorile, che poi ho reinventato di sana pianta al femminile. Però l’ho potuto inventare perché ci sono andata, ho incontrato dei ragazzi che mi hanno insegnato tantissime cose che io non sapevo». Silvia Avallone ci tiene a questo incontro con la realtà: l’ha fatto anche per scrivere i suoi libri precedenti, andando nelle acciaierie, negli ospedali, nelle periferie. «È una cosa che dovremmo regalarci tutti. La mia pulsione, insieme alla scrittura, è la vita: perché non devo conoscere i luoghi di sofferenza? Perché non posso portare un minuscolo contributo? È un regalo che si fa a se stessi. Io ho sempre ricevuto tantissimo dagli incontri reali». Nel carcere minorile di Bologna, vicino a casa sua, Silvia Avallone ha conosciuto i ragazzi, le loro origini, la loro voglia di riscatto. «L’opportunità di conoscere i ragazzi detenuti, ascoltarli, organizzare con loro laboratori di lettura e scrittura è stata una delle esperienze più potenti della mia vita» scrive nei ringraziamenti. L’adolescenza è l’età preferita di Silvia Avallone, da trattare con cura. «L’adolescenza dietro le sbarre è un paradosso: mi sembrava ingiusto, come cittadina, vivere in maniera spensierata ignorando quello che accadeva al di là di un muro. Scavalcare quel muro è stato fondamentale». Valgono le storie delle persone, mi dice. «Le definizioni, le generalizzazioni, gli stereotipi sono sempre violenti: ogni ragazzo ha la sua storia, vive in un certo modo il carcere».

Un libro che fa pensare

Leggendo il romanzo ti fai un sacco di domande: da adolescente spesso non sei poi così diversa da Emilia. Il confine che puoi superare è questione di un attimo. «La famiglia e il luogo da cui provieni hanno un enorme impatto su quello che potresti fare» osserva l’autrice. «È un male sociale che noi abbiamo il dovere di curare con il senso di comunità, la solidarietà. Con una società che non lascia indietro nessuno. Poi c’è il male radicale che ti fa porre domande che non sono più sociali ma religiose: Emilia non viene da una realtà disagiata, ha tanta rabbia, tanto dolore, ma anche degli strumenti. Eppure nel male ci precipita, lo compie, è sua responsabilità. L’ho creata della mia stessa età proprio perché volevo portarla a me. Per ricordare, anche se ci fa orrore, che il male è una possibilità, tutti potevamo essere Emilia. Perciò è necessario stemperare la rabbia e la violenza con la cultura, l’incontro. E ricordare che ci sono altre forze, come il perdono, per costruire una società altruista».