I ricordi più incisivi dell’infanzia, come i traumi, sono spesso legati a una vacanza. L’estate è la stagione delle vacanze, e per alcuni le vacanze sono viaggi. La mia infanzia è stata anche un viaggio in America. La storia di un trauma. E i traumi infantili sono le scene madri che tracceranno il nostro percorso, quel gesto che in qualche modo ci segnerà per sempre.
Avevo 5 anni e i miei genitori avevano deciso di coinvolgere 2 coppie di amici con figli per partire alla volta di New York
Senza saperlo, stavo per andare incontro al gesto che mi avrebbe destinata alla forza della scrittura. Sembravamo una carovana. Io, i miei 2 fratelli più grandi, altri 4 ragazzini della loro età e 6 adulti. Tutti stravolti dal fuso orario e dall’atterraggio notturno su una pista del JFK della Grande Mela. Come in una favola, anche qui c’è una mela. Però c’è anche un nastro bagagli. Mi ero incantata sul suo ipnotico rullio quando è successo. Non ero proprio sola, c’era la mia bambola con me. Di quelle imbottite, con i capelli di lana. Una faccia sempre allegra che sapeva rassicurarmi. C’erano 2 pulmini fuori dall’aeroporto e avevano il compito di portarci in albergo. Un pulmino per i ragazzini (dai 13 ai 5 anni, anche se l’unica cinquenne ero io), un pulmino per i grandi (3 coppie di genitori), e un viaggio di un’ora fino all’albergo, con tanta, troppa stanchezza sulle spalle. Mia madre che dice qualcosa a mio fratello a proposito di me, mio fratello che pensa che io sia con lei, ed ecco che s’innesca un fraintendimento a orologeria, quella scena madre intorno alla quale si costruirà gran parte della mia esistenza. Mentre mi lascio cullare dallo scorrere lento del nastro bagagli e dagli occhi sorridenti della mia bambola, proprio come in quel celebre film natalizio degli anni ’80 dove un ragazzino perde l’aereo, la mia grande carovana sta per perdere qualcosa d’importante.
Tutti raggiungono il loro pulmino tranne me
Che rimango sola, in un aeroporto internazionale, e che di colpo, guardandomi intorno, realizzo che non c’è più nessuno di conosciuto intorno a me, nessuno che parli la mia lingua. Se chiudo gli occhi, riesco persino a sentire la consistenza del tessuto della mia bambola tra le dita. E a rivedere la faccia dell’Uomo Nero che mi raggiunge all’ingresso dell’aeroporto per fermarmi. Ero corsa verso le porte scorrevoli gridando «Mamma», quando quel poliziotto di colore, in divisa blu scuro, mi ha trattenuta per un braccio. Sembrava una montagna, e diceva parole senza senso, mentre gli sguardi di un’estranea moltitudine mi stavano accerchiando. Ero tornata una neonata che non comprende il linguaggio del mondo e che ha una sola esigenza: sapere che la mamma non l’ha abbandonata. Ma più il tempo passava più quelle parole incomprensibili diventavano costante brusio, e il mio destino si era tramutato in un ufficio che, come mi avrebbero spiegato in seguito, altro non era che l’ufficio oggetti smarriti. Ci sarei rimasta più di 2 ore, un tempo che nella percezione di una cinquenne sembra infinito.
Mia madre, un’ora dopo, raggiunge l’albergo e scende dal pulmino: «Dov’è Simona?»
Immagino i suoi occhi che si spalancano sull’abisso. La vedo che mi cerca e si fa liquida, annaspa, fino a svenire per terra. Vedo mio padre che la carica sulle spalle e grida all’autista di tornare indietro. Lo vedo forte, ma come di vetro. Non ha un cellulare a cui appellarsi, solo una radiolina che il pulmino ha in dotazione e supplica il conducente di contattare la polizia dell’aeroporto. Un’altra ora di tragitto li separa dalla certezza di ritrovarmi viva. Io sono viva, sì, ma a dir poco sconfortata. Sola con in mano una penna e un foglio bianco. Le classiche cose che si danno a un bambino per fargli passare il tempo. Un disegno. E il mio disegno era, lo ricordo bene, un orfanotrofio. Stavo immaginando il mio futuro, cercavo di darmi una collocazione, di rispondere all’ineffabilità dell’abbandono, creando qualcosa di tangibile. Pagherei qualsiasi cifra per rivedere quel disegno, sono certa di averci messo anche lei, la mia bambola, e di averci fatte minuscole, accanto a un edificio enorme. Mia madre intanto sta tornando da me. Una volta all’aeroporto le indicano la direzione e mentre sale di corsa le scale si ripete di essere forte, di non farsi vedere in lacrime. Deve farmi coraggio, aiutarmi a superare il trauma. Quando l’ho vista comparire oltre la porta, mi sono sciolta e sono stata io a gettarmi in lacrime tra le sue braccia. Poi le sue ginocchia hanno ceduto insieme alle mie. Intorno a noi c’erano sospiri di commozione. Nel tempo abbiamo raccontato questo episodio farcendolo di dettagli sempre nuovi, come si fa con i vecchi film. Pensando che fosse, tutto sommato, ormai una cosa da riderci sopra.
Invece un giorno, proprio grazie a un film, ho capito che non c’era molto da ridere
Anzi, quell’episodio era stata la mia scena madre. Stavo guardando sul grande schermo la scena di uno smarrimento, in Lion-La strada verso casa. La storia vera di un bambino indiano che sale su un treno per sbaglio e si ritrova solo, in un Paese lontano, dove non c’è più nessuno che parli la sua lingua. Seguo quel bambino sullo schermo e il fiato comincia a mancarmi. Mi sento lì, insieme a lui. Mi coglie una specie di panico. Mi manca l’aria, chiedo al mio compagno di portarmi fuori dalla sala. Il ritorno a casa di quel bambino, che a differenza mia ritroverà la madre soltanto 20 anni dopo, me la sono fatta raccontare perché non ero in grado di rivivere insieme a lui quella scena. È stata la mia analista a propormi di riviverla, attraverso una tecnica che si chiama EMDR. Una tecnica che aiuta a sbloccare la mente dai traumi. Curioso che l’acronimo faccia pensare alla parola “madre” quando in realtà sta per Eye Movement Desensitization and reprocessing, proprio perché la tecnica si avvale dei movimenti oculari. Attraverso questa terapia ho ritrovato la storia di una bambina perduta che disegna un orfanotrofio nell’aeroporto di New York.
Quella bambina sono io, e il gesto che compio sembrerebbe così banale
In fondo è solo un disegno. E invece quanta grandezza c’è nel gesto di un bambino che disegna, che incide la carta con una raffigurazione, e che quindi sta lasciando un segno attraverso la materia e sulla materia? Di nuovo la parola “mater”, perché materia e madre hanno la stessa radice e io non ci avevo mai pensato. Perché il disegno di un bambino è anche il racconto della sua storia. A volte in quei disegni ci sono le mamme e i papà, le case o le scuole. Quasi sempre un prato, o un cielo. Spesso dei fiori. Quelle raffigurazioni sono anche un modo per rimettersi al mondo, un darsi la vita in un altro luogo e in un altro tempo. Nel mio luogo-madre dell’infanzia, in quell’estate di tanti anni fa, c’erano un edificio enorme e una bambola smarrita. La mia storia era il bisogno che aveva una bambina di ritrovare una collocazione che fosse lontana dall’aeroporto straniero in cui era precipitata. Lontana da quel crocevia di bagagli e di persone.
Negli anni sono ricorsa alla scrittura di un racconto ogni volta che mi sono persa e ho avuto bisogno di ritrovarmi
Credo di essere diventata una scrittrice proprio a partire da quell’estate. C’è stato un tempo in cui pensavo che senza soffrire di una perdita o di un abbandono, non avrei saputo creare alcuna storia. La cruda convinzione che nei momenti felici la scrittura non avrebbe trovato uno sfogo. Soltanto con il passare del tempo sono riuscita a liberarmi di quel trauma. Elsa Morante scriveva che dalle madri non ci si salva. Credo però che solo liberandosi dalle scene madri della nostra vita sia possibile trovare una strada.
Simona Sparaco, 40 anni, di Roma, è stata finalista al Premio Strega nel 2013 con Nessuno sa di noi (Giunti). Quest’anno ha vinto la prima edizione del premio DeA Planeta con l’ultimo romanzo Nel silenzio delle nostre parole (DeA Planeta). Gli altri racconti scritti in esclusiva per Donna Moderna li trovi qui.