Per il corso di scrittura con Lidia Ravera, avete scritto di voi e del rapporto con i vostri anni, la vostra età. Abbiamo ricevuto otre 200 racconti: sceglierne “solo” tre è stato faticoso, perché molti erano ben scritti ed emozionanti. Ecco perché abbiamo deciso di condividerne altri sette: ecco altre delle vostre storie di vita. Sono autentiche e piene di vita proprio come voi, che avete imparato a volervi bene, a portare pazienza per tutti i vostri limiti e valorizzare i vostri pregi. Buona lettura.

La tua immagine (Matilde Sciarrino)

Dici che ti ferisco? Ti faccio male? Ci credi davvero? Oppure, come al solito, giochi a fare la vittima? Prendi in giro te stessa. Patetica. Ti rendo quello che mi dai. Né più né meno. È solo una questione di riflesso. Rifletti, cara, rifletti! Ah, ah, ah! Ho appena fatto una battuta e non te ne sei accorta.

Adesso sono serio. E sincero. Non mi puoi certo accusare di non esserlo mai stato. Ora come allora. Con maggiore intensità e consapevolezza. Da parte tua, ovviamente. I capelli erano lunghi, scuri e folti. Adesso sono corti, grigi e fragili. Sorridevi poco anche per non mostrare i denti accavallati. Adesso sorridi di meno nonostante la dentiera perfetta. Denti piccoli, bianchi, allineati. L’unica cosa ordinata che vedo in te. Allora, torniamo all’allora. Questa era casa di tua madre. Ora è casa tua. Nel suo bagno ti sentivi un’ospite poco gradita. Poi lo hai condiviso con Luca, tuo marito. Ora lo usi solo tu. Tu sola e da sola. Mai un volto nuovo. Tutto è vecchio qui. Negli anni hai sostituito solo la lavatrice e un rubinetto. Per il resto, è rimasto tutto uguale.

Neanche tu sei cambiata. Sì, lo vedo, sei cambiata molto. Ma sai bene cosa intendo. Ti sei ingobbita. Sei piena di rughe in volto e di cellulite nei fianchi. Ma dentro sei rimasta una bambina inconsolabile. Dai, torniamo indietro nel tempo. Preferisci grandi salti o piccoli passi? Non sei mai stata brava con i numeri. Di decenni ne sono passati cinque, di secondi più di un miliardo. Avevi tredici anni quando hai cominciato a tagliarti. Venti quando hai smesso. Ma hai veramente smesso? Dai vizi non ci si libera mai, lo diceva Luca, che, con la bombola di ossigeno al fianco e la cannula alle narici, cercava le sigarette. «Il vizio è piacere. Perché me ne privi?», questo ti chiedeva. Invece di accontentarlo tu fingevi di non sentirlo. Adesso hai anche questo di rimpianto.

«Mamma, mi fai male! Mi tiri i capelli!».
«Sto cercando di farti la coda. Non ti muovere!».
«Non voglio la coda e non mi piace questo nastro!».
Ti agitavi e lei ti colpiva con il dorso della spazzola. E poi con il bastone della scopa, la paletta, il filo della biancheria. In bagno e non solo. Tanto male. E tanta rabbia. Questa scorreva con il sangue dai polsi, dalle cosce, dalle piante dei piedi. Almeno quel dolore lo gestivi tu, era più forte ma ti dava soddisfazione, il piacere di essere padrona del tuo corpo. Frammenti di vetro, coltelli, forbicine e aghi: strumenti di un martirio che Luca ti ha portato via. Se n’è andato e te li ha riconsegnati.

Inizia a fare i conti anche se non ami la matematica. Quanti anni ti restano ancora? Venti? Trenta sarebbero già troppi. Vuoi imparare a viverli senza piangerti addosso? Ormai lei non ti strapazza, lui non ti sorregge. Non è troppo tardi per imparare a trattenere il tempo. Io ho trattenuto le tue immagini, da piccola mocciosa a signora rugosa. E li porterò sempre con me anche quando tu non ci sarai più e io mi ritroverò in un polveroso angolo di un mercatino dell’usato.

Signora a chi (Nadia Santese)

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“Signora, si vuole sedere?”

Come hai detto scusa, ce l’hai con me? Sei fuori strada, guardami bene: non dico che potrei sembrare tua figlia, ma magari una tua amica… ok, diciamo tua sorella maggiore, in ogni caso hai sbagliato persona, voi giovani siete sempre così impulsivi! D’accordo, indosso le calze contenitive e stamattina ho preso le compresse per la pressione, ma questi sono affari miei, all’esterno non trapela nulla e quindi attenta a come parli, ragazzina.

Che poi – dico io – un minimo d’educazione! Chissà a cosa pensavi poco fa, ti sei distratta e ti è sfuggita una frase di troppo, di sicuro è andata così. O sarà per via di questo ventaglio che agito in maniera forsennata? Avrai pensato che ho le caldane – oddio, che brutta parola, detesto questo termine, via dal mio dizionario, se una cosa non la pronunci non esiste! – ma l’avrai sentito anche tu che il clima è cambiato e la temperatura è più alta del solito, non sono io ad avere le vampate, cocca, è l’estate che ora dura tanto: cinque mesi, era scritto sul Corriere proprio qualche giorno fa!

Signora, a me! Sarà per via dell’abbigliamento? Cara mia, anche se mi piacerebbe, non posso andare in ufficio in tuta, e nemmeno con i jeans strappati e le scarpe sportive slacciate e lo so che si chiamano sneakers e sono di moda, ma io ho bisogno di un po’ di tacco – non troppo a dire il vero, altrimenti s’infiamma la zona lombare, il fisioterapista mi ha consigliato massimo cinque centimetri e figurati se metto in discussione i suoi suggerimenti, con tutto quello che mi costa – e di sneakers, non sai quante ne ho consumate nella mia vita, che poi, intendiamoci, non è così distante dalla tua – solo un pochino – e alla fine, a chi vuoi che interessino questi dettagli, lasciamo perdere.

Ci sono: è per via della ricrescita, ma allora non sei aggiornata: l’ultima tendenza è evitare di tingersi i capelli, l’effetto nature è quello vincente! Hai visto Andie MacDowell? Chioma brizzolata al vento e nessun timore! E non fare quella faccia: Andie MacDowell è quella di Quattro matrimoni e un funerale, un film del 199- ehm, insomma, di qualche anno fa, è anche su Netflix, strano tu non lo conosca.

E comunque signora lo dirai a tua madre: voi giovani non potete dire quello che vi passa per la mente senza riflettere! Ora è meglio che mi calmi, se m’innervosisco mi vengono le lacrime e se piango poi viene giù il mascara, il copri occhiaie e addio impalcatura! Il correttore, cara la mia signorina, io lo uso ogni mattina per uniformare l’incarnato e coprire anche certi pensieri. Sicuramente tu non usi alcun prodotto, invece dovresti: il sole, il fumo e lo smog possono rovinare la pelle, ricorda che è meglio prevenire che curare, come diceva uno spot che… no niente, come non detto. Ma dove siamo? Mi hai fatto perdere la nozione del tempo, io devo scendere a Romolo: togliti quelle cuffiette e aiutami a leggere la prossima fermata, ho gli occhiali nuovi con le lenti progressive e mi devo ancora abituare…

Cinquanta sfumature (Manuela Fucci)

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“È lei, mamma.”
Dario si dà una spinta. Di questo passo, ci finirò anche io in acqua. Infilo la mano in uno dei buchi
del materassino mentre Dario si tuffa di nuovo. Due secondi dopo ecco che risale grondante
d’acqua. “La vedi?” “Secondo me hai preso fischi per fiaschi, Dario.” Sollevo leggermente il busto: dopo l’episodio di lombosciatalgia che mi ha colpita vivo con il terrore di rimanere bloccata.

“È Alessia, mamma. La tua figlia femmina.” Dario mi guarda: ha un sorriso bianchissimo. “Per forza che non la vedi, sei senza occhiali!”
“Lo sai che non li porto più a mare: ti ricordo che i vecchi li ho persi in spiaggia perché qualcuno
ha svuotato la borsa mentre cercava il suo cellulare.” Lo guardo sbattendo le ciglia.
“Okay, se non ti interessa sapere, mamma…”
“Starà a mare con la comitiva, che vuoi che sia.”
“Vabbè.” Conclude.
Rimaniamo a galleggiare come i due protagonisti del film Titanic, quando mi ricordo che Dario è
sempre sbrigativo quando vuole sottintendere qualcosa. Strizzo di nuovo gli occhi sforzandomi di
vedere Alessia, ma davanti a me ci sono solo delle figure sfuocati. Mi arrendo: “Ma… quindi che
sta facendo?”
“Mamma, sta in acqua con uno della comitiva.”

“E vabbè, chissà che pensavo.” Mi metto ritta, i piedi toccano la sabbia. Inizio a camminare,
trascinando il materassino e Dario, aggrappato.
“Si chiama Federico.” Aggiunge.
“Ah… sì, sì, va bene.” Rispondo con tono distratto.
“Ha quindici anni.”
Uno in più di Alessia. “Vabbè, staranno solo chiacchierando.”
“No, Mamma.”
“No, mamma, cosa?”
“Stanno abbracciati, si baciano.” Mi sollevo sulle punte, le ginocchia chiedono pietà; non le
ascolto. La schiena lancia piccole fitte: non gliela darò vinta. Le mie sono cinquanta sfumature di
dolori. Riprendo la marcia nell’acqua, decisa a vederci chiaro.
“Mamma fermati, ci stiamo avvicinando troppo.”
“Ma no, è la corrente che ci spinge.”
A un certo punto sento il materassino farsi più leggero. Mi giro e vedo Dario in piedi nell’acqua.

“Io rimango qui. È troppo una figura di niente.”
“Stiamo solo facendo una passeggiata.” Sollevo le spalle.
“Dai mamma! Lo capisce subito che sei andata lì per vedere ‘sto Federico.”
Scuoto la testa. “Io? Ma non mi sognerei mai!”
Proseguo da sola. Sono a meno di due metri da Alessia e Federico. Riesco a vedere i loro profili.
Lui ha il naso greco e il mento appuntito. Alessia ha i capelli all’indietro.
“Ciao Alessia”, sorrido, “volevo solo farti sapere che io e Dario saliamo al ristorante”. Mi
avvicino un altro po’. Vedo i loro occhi sgranati. Sorrido, li saluto con le mani. Faccio mezzo giro
e torno da Davide che, intanto, è salito sul materassino. Lo spingo verso la riva. “Che hanno detto,
mamma?”

Mi scappa una risata, poi un’altra; vorrei fermarmi, ma non riesco. Tra una risata e l’altra gli dico:
“Appena torniamo dalle vacanze prenoto due visite oculistiche: una per me e una per te”. Dario
mi guarda interrogativo e io aggiungo: “Non erano loro”.

Stagionata 684 mesi (Francesca Astori)

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“Che faccio, tingo?”. All’inizio erano un paio di fili bianchi che potevo strappare, rapida e discreta. Poi un incremento direi costante, seppure non impegnativo, ma che, continuando ad estirpare, mi avrebbe portata a soluzioni esteticamente impraticabili. “Che faccio, tingo?” e mi passava davanti l’immagine della mia prof di inglese delle medie, con la messa in piega color Ciobar. Non ho tinto. Incredibile, ho quasi sessant’anni. Dopo aver superato la deriva emotiva da caos ormonale e il trauma del giropancia in espansione incontrollata, mi trovo a stare nella vita in un modo nuovo. La abito come una casa conosciuta in tutti gli angoli, botole nascoste e terrazzi panoramici, una planimetria multicolore che mescola il giro delle stanze con le costellazioni dei pensieri.

Per esempio il ripostiglio degli imbarazzi, chiuso a doppia mandata e contenente le figuracce adolescenziali, gli scivoloni adulti, le parole mai rimangiate, i vestiti non donanti e certe pettinature inspiegabili. La cucina e i suoi momenti di parmigiane squisite e scarpette, di minestrine consolatorie e ricerca di qualcosa di dolce. Tempo passato a schiaffeggiare terapeuticamente impasti, eliminare le farfalline della farina – riordinare i pensieri. Rimuginare in risonanza col sugo. Bicchieri mezzi pieni, latte versato e asciugato. La camera da letto che mi ha visto panterona e puerpera, dove ci siamo addormentati in due, a volte in tre, in quattro, coi piedi dei bimbi piantati nel fianco, cullati dai loro respirini, in una bolla di protezione e invulnerabilità.

Ora che i figli vivono altrove, siamo tornati a dormire in formazione-base, io e lui. Lui che crolla appena poggia la testa sul cuscino: uno due tre ed è già in fase rem. Io no. Esito. Tentenno. Titubo. Indugio. Il corridoio, percorso alla cieca nelle gite notturne verso il bagno. Passeggiate silenziose, simbolo manifesto della mia età, ormai punteggiata da notti esilissime, idraulicamente impegnative, riccamente tempestate di domande oziose e di infime preoccupazioni scatenate al galoppo.

E il bagno, quindi. Siero e crema antietà nell’armadietto, perché io valgo. Perché stagionare può essere un’arte, e la sto imparando. Eccomi dunque pronta ad occupare con curiosità il mio nuovo status di signora matura e consapevole, arredato con prestigiose occhiaie incancellabili, un distinto collo da tacchina e la pelle leopardata da nuovi nei. Il pelo sul mento magari lo eliminiamo, in nome della dignità. Dignità. Mi pare di vedermi sul terrazzo pergolato, un panorama di discese ardite e risalite, le lucine della sera e il glicine gentile, rinfrescata da un ventaglio di possibilità, seduta in poltrona a godermi il sapore degli anni passati, assaggiando il presente e pregustando il futuro, un filo dorato di cause ed effetti. E in questa inaspettata dolcezza delle sette e un quarto della vita, mi trovo a dare ragione a Emily Dickinson, Trilussa e Al Bano: la felicità è nelle piccole cose. Anche.

Il corpo racconta (Cristina Amelio)

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Ho sempre pensato che il corpo racconta meglio e più delle parole. Racchiude in sé una storia
costruita anno dopo anno e posata sulla pelle, incastrata tra le curve della voce, mossa dai gesti
delle mani e dall’andatura della camminata. La mia storia racconta di un percorso arrivato a più della metà dal suo traguardo, se il traguardo, come immagino, sarà il sonno dell’anima, quando tutto si spegnerà per far brillare solo le stelle. Le rughe intorno agli occhi e alla bocca, disegnate dal tempo e dal riposo mancato, descrivono gli anni trascorsi e rincorsi. E la clessidra del mio tempo non misura l’età che indosso più o meno con disinvoltura, ma la distanza anagrafica tra me e Elena e tra me e mia madre. Ho infatti iniziato, senza quasi accorgermene, a misurare lo scorrere della vita da quando è nata mia figlia,
rimanendo figlia io stessa.

Elena velocemente cresce, mia madre lentamente invecchia. Io, in mezzo, resto in equilibrio tra
questi due tempi che conducono inesorabilmente ad un doppio distacco, difficile da accettare. In
questo continuo misurarmi mi accorgo di assomigliare all’una e all’altra, diventando una persona
in continuo cambiamento, non più giovane, non ancora anziana.

Noi due. Come Elena ho gli occhi sempre accesi, le spalle ampie, i polpacci piuttosto pronunciati, il passo veloce. Entrambe gesticoliamo per dare più forza alle nostre parole, amiamo gli animali, i cani soprattutto; sportive e competitive, non accettiamo facilmente le sconfitte, neanche nella vita. Sappiamo entusiasmarci e siamo contagiose. Amiamo prendere il sole fino a farci bruciacchiare le guance, tuffarci nelle onde schiumose quando il mare è arrabbiato, sfidarci a tennis sporcandoci di terra rossa e scommettendo sul punteggio finale. Abbiamo un umore variabile, capace, in tempi brevissimi, di attraversare oceani di lacrime ed atterrare in un tessuto soffice di risate.

Poi le differenze. Elena ha una tensione continua verso la perfezione: nello studio, nello sport, nell’abbigliamento, talvolta nelle amicizie; io accolgo maggiormente le imperfezioni, gli sbagli. Elena difende con tenacia le sue idee e difficilmente cambia opinione; io indietreggio, talvolta barcollo. Sa trovare quasi sempre una soluzione, una mediazione, si rialza ogni volta che cade e guarda avanti, al dopo; io mi spavento, spesso scivolo e aspetto. Elena ha da poco avuto il primo ciclo, in linguaggio tecnico, il menarca; io, nello stesso periodo, sono entrata in menopausa, una dimensione che porta con sé una sottrazione. Due corpi, il suo e il mio, che cambiano: lei diventa donna e sta acquistando nuove forme, io resto donna e quelle forme le sto perdendo. Elena vive gli imprevisti come scherzi del destino e li affronta con la leggerezza che le appartiene; per me sono pizzicotti fastidiosi che lasciano lividi.
Lei vola, io resto.

Noi due. Come mia madre, soffro sempre per i sensi di colpa: voragini capaci di scavare vuoti che si riempiono di stati d’animo confusi; entrambe rincorriamo la precisione, senza mai raggiungerla; odiamo i ritardi agli appuntamenti, che siano di lavoro o con gli amici, perché l’attesa nostra o altrui stanca e offende. Dimentichiamo date e nomi di città o di persone famose e confondiamo spesso eventi che appartengono al passato, più vicini per lei, più lontani per me. Entrambe abbiamo perso quel sonno che diventa riposo. La notte è un luogo difficile da abitare: scivoliamo al suo interno spinte dalla stanchezza o da un sogno, ma poi all’improvviso veniamo assalite dai pensieri, dalle paure. La notte è uno spazio faticoso perché può portare tormento e malinconia, non sempre risposte.

Mia madre non riesce più a sentire alcuni suoni e quando le ripeto la frase ad alta voce, mi accorgo che la sto offendendo anziché aiutando; so di urlare anche quando parlo al telefono o come reazione se subisco un affronto verbale. I pasti che raramente consumiamo insieme, solo noi due, sono sempre leggeri, con poco sapore perché i cibi troppo elaborati si trasformano in sassi appuntiti nello stomaco, ma sappiamo entrambe che quei momenti sono pretesti per allontanarci temporaneamente dal resto del mondo; confidenze poco condite.

Poi le differenze. Mia madre ha imparato la lentezza: nel passo, nei gesti quotidiani, nel dialogo. Io non conosco pause e, negli incastri di un’esistenza accelerata, rincorro gli attimi con l’illusione di riuscire ad allungarli, e mi fermo solo se inciampo. Mia madre allena la memoria con tanta lettura, con i calcoli, con i ricordi che non devono sbiadire; io adoro i libri, ma scivolo presto in un sonno senza rimedio e non so rapportarmi serenamente con i numeri, neppure con le operazioni matematiche più semplici che li legano tra loro; se non scrivo ogni appuntamento sulla mia agendina, dimentico e disfo. Mia madre, con una sofferenza nuova, chiede aiuto quando i limiti dell’età le impongono una pausa, un respiro più profondo, accoglie la rinuncia come un evento naturale; io mi arrabbio se non raggiungo, come in una gara ad ostacoli. Lei accetta, io mi spezzo.

Elena e mia madre sono l’orologio della mia vita e la loro somma fa di me la persona che sono e che diventerò. Gli anni mi allontaneranno dall’una e dall’altra per ragioni e con dolori diversi, non potrò più stare in mezzo ed essere sicura di non cadere. Questo cambiamento mi spaventa, perché richiede coraggio e capacità di adattamento; ho paura di rimanere sola, con il cuore strappato. Spero, allora, di saper scegliere se diventare una bolla di sapone che, dopo essersi riempita di arcobaleno, scoppia e si dissolve o un fiocco di neve che quando si scioglie diventa goccia e disseta.

La felpa rossa (Letizia Grandi)

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Dalla stanza non uscivano rumori. Sembrava che non ci fosse nessuno. Agnese era brava a sparire. A
volte capitava che sua mamma si dimenticasse di lei, soprattutto se era concentrata su qualcosa. Tipo
quando piegava i vestiti. La mamma aveva un mucchio di vestiti e ci perdeva tempo a sistemarli. Al
contrario di Agnese, che aveva solo tre felpe e le appoggiava sulla spalliera della sedia per fare prima. Non si poteva certo dire che la mamma fosse una maniaca dell’ordine, anzi, lasciava sempre un sacco di cose in giro per la casa. Tuttavia, aveva una cura maniacale per il suo armadio. Se lo guardava soddisfatta, come se in quel luogo chiuso e circoscritto fosse conservato l’ultimo frammento di un ordine universale perduto. La mamma si sforzava di avere un controllo sulle cose, ma evidentemente le riusciva bene solo dentro lo spazio ristretto del guardaroba Ikea.

“Sei dentro?” disse la mamma mentre apriva la porta. Nella penombra spiccava la felpa chiara di
Agnese, seduta di schiena, avvolta dalla luce del cellulare. “Che vuoi fare?” insistette la mamma. “Hai intenzione passare tutto il pomeriggio lì davanti?” “Più o meno.” rispose Agnese. “Diventerai cieca. E stupida.” “Ecco, un attimo.” “Non dirmi “ecco” con quel tono da menefreghista. Sono tua madre!” – Si ricordò che doveva piegare i maglioni. “Ho quasi finito.” “Basta!” urlò la mamma “Non mi faccio prendere in giro da una ragazzina. Qui ci sono delle regole da rispettare. Altrimenti se non ti sta bene te ne vai.” “Sì.” La mamma si tirò dietro la porta e andò in camera sua. Sul letto c’era un cumulo di maglie. Cominciò a piegarle meticolosamente, facendo attenzione che i risvolti laterali fossero perfettamente simmetrici tra loro.

«Bel video».
«Grazie», digitò Agnese. Diede un’occhiata alla foto, non l’aveva mai vista. Era un tatuaggio. Pareva la
testa di cane o qualcosa del genere dentro un bicchiere.
«Sei proprio carina lo sai?».
Agnese rispose con un cuore. Però in quel momento nel petto le sembrava di averne tre. Andò subito a
curiosare sul suo profilo, ma era privato e ci rimase un po’ male. Guardò meglio la foto: non era un cane ma un lupo che spuntava da un boccale di birra. Originale. Lei andava pazza per i tatuaggi. Sua madre però era contraria, perché se poi ti stanchi, diceva, col cavolo che puoi tornare indietro. A quel punto non sapeva come comportarsi. Era la prima volta che uno sconosciuto le commentava un video. Era emozionata. Sperava che quei complimenti continuassero, ma non voleva dare l’impressione della disperata.

«Ho visto tutti gli altri video che hai postato».
«Davvero?», ma cancellò subito e scrisse «ok»
«Sei diversa dalle altre»
«Non lo nego»
«Stupenda».
Un calore divampò dentro la pancia di Agnese. A quel punto, lei non ce la fece più a trattenersi e scrisse
«Ti conosco?»
«No, non mi conosci. Ma io sì. Ti seguo da un po’»
«E che pensi?», scrisse Agnese, tormentandosi il labbro inferiore con i denti.

«Mi fai venire voglia di mangiarti»
«Ma dai», faccina imbarazzata, «è l’effetto del video!»
«Ti ho visto anche dal vivo. E confermo…»
“Almeno ti sei ricordata della nonna?” urlò la mamma dal corridoio.
Per la sorpresa Agnese urtò il bicchiere col succo d’arancia che si versò sulla felpa. Per un po’ rimase ad
osservare quella macchia rossa che si espandeva, molto lentamente, sul cotone candido.

“Nonna ti sta aspettando, l’hai dimenticato?”
Agnese uscì di corsa, aveva promesso alla nonna che sarebbe andata a portarle la patente non appena la
mamma l’avesse ritirata in agenzia. Da quando le era scaduta, era dovuta rimanere in casa a forza, e desso scalpitava. Non era il genere di nonna tutto pantofole e crostate, preferiva mille volte andare a ballare. Per strada Agnese ripensò a quel tizio col tatuaggio, a com’era sicuro di sé, a quanto l’apprezzava; decise anche che non lo avrebbe detto a nessuno, almeno per il momento, sarebbe rimasta una cosa tutta loro.

“Finalmente! Brava la mia nipotina.” disse la nonna mentre cercava di infilarsi dentro un tubino di
lamé. “Nonna, che labbra grandi che hai!”. “Ho fatto un filler. Ti piace? Ormai lo fanno tutte. Guarda come sono polpose! Miki ci va pazzo”. “E chi è Miki?” “L’ho conosciuto al centro anziani. Spesso balliamo insieme. Ti piace il vestito?” “Contenta tu.” La nonna era già sul pianerottolo. Sfilò la patente dalla mano di Agnese e si volatilizzò, salutandola «a domani, amore di nonna!».

Quando arrivò sul bordo della pista lo cercò con lo sguardo, senza farsi notare. Appena lo vide, andò a
salutare delle conoscenti che stavano abbastanza vicino a lui. Mentre chiacchierava con loro, sentì due mani cingerle i fianchi e una voce calda che le sussurrava all’orecchio «da quanto tempo». Lei si voltò. Era proprio un bel tipo Miki. Piaceva a tutte. Soprattutto quella sera, con la camicia di raso aperta, lei non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo petto. Si intravedeva anche quel suo strano tatuaggio di cui parlava sempre. Gliel’aveva disegnato la figlia che fa l’artista. Un lupo dentro un boccale di birra. Bah! Vai a capire che gli gira in testa alla gente.

Il genio d’insegnare (Mariacarolina Santoro)

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“Oggi non tengo proprio genio. E buongiorno a tutti quanti!” Sono di spalle alla porta d’ingresso della Sala docenti, intenta a sistemare in borsa le fotocopie per il compito in classe di Latino, quando sento queste parole. Mi giro istintivamente per vedere da dove provengano. È Ugo, collega di filosofia alle soglie della pensione, di solito saccente e poco simpatico ma questa volta davvero irresistibile, l’autore del provocatorio saluto mattutino. Scoppio a ridere di gusto, subito dopo però mi accorgo che non si tratta solo di un modo spiritoso di iniziare la giornata. Sotto sotto, dice davvero. E mi rendo conto con sorpresa che anche per me è così: Oggi non ho proprio genio … La risata mi si blocca, si trasforma in una smorfia amara.

Entrando attraverso quel cancello grigio ogni mattina provo uno strano disagio a cui oggi finalmente so dare una definizione: “Mancanza di genio”. Da quando mi succede? Non saprei dirlo, ma so per certo che all’inizio non era così. Quando ho cominciato a insegnare le materie più belle e più umane che esistono, oltre vent’anni fa, ero una giovane professoressa contenta e orgogliosa, provavo una soddisfazione e un piacere che ora – mi vergogno a dirlo – mi stupiscono. Mi sentivo utile, gratificata, talvolta anche inadeguata all’importanza del ruolo. Mi illudevo, forse per inesperienza o per ingenuità caratteriale, di avere un lavoro di grande dignità e responsabilità. Poi, gli anni sono passati e un po’ alla volta tutto è cambiato, soprattutto sono cambiata io e, con me, la mia percezione di tutto.

E ora lo sento con un’evidenza stupefacente e imbarazzante: mi è passato il genio! La scoperta mi induce a pormi un’altra domanda: come riesco ancora a fare lezione, se non ho più genio? Così su due piedi, non trovo una risposta. Mentre mi arrovello immersa in questi pensieri angosciosi e il senso di colpa mi assale, esco dalla sala e mi si presenta dinanzi agli occhi un’immagine familiare di donna, curatissima, dai lunghi capelli biondi incredibilmente folti, lucidi e fluenti, vestita e ingioiellata come un sinuoso manichino delle vetrine del centro. Gli abiti nuovissimi, in perfetta armocromìa (come piace dire oggi). Un profumo intenso, di quelli persistenti e costosi, la avvolge mentre cammina a testa alta.

Sembra che si sia preparata – penso più stupita che ammirata – per una cena elegante. Come riesce a venire così perfetta a lavoro alle 8 del mattino? Considero per qualche secondo il mio abbigliamento e mi chiedo preoccupata se, prima di uscire di casa, ho avuto il tempo di guardarmi allo specchio mentre, come ogni mattina, ringhio ai miei figli di prepararsi in fretta e di non chattare al cellulare con gli amici mentre si lavano i denti.

Da un veloce esame del mio outfit del giorno mi accorgo di aver indossato i collant blu sotto la gonna nera. Eppure avrei giurato di aver preso quelli giusti! Mi viene l’istinto di scappare in bagno per sfilarli, ma poi mi rendo conto di non poter trascorrere cinque ore di lezione – ovvero 300 minuti di tensione assoluta e quindi di ipersudorazione – con i piedi nudi nelle ballerine di pelle. Ormai è tardi, inutile pensarci. Di sicuro le mie alunne lo noteranno e si scambieranno occhiate d’intesa e risatine, come quella volta che indossai un maglione al rovescio.

Mi sovviene all’improvviso che oggi alla quinta ora non ho lezione ma ricevimento dei genitori. Peggio di così … A questo punto una vampata di calore mi assale, una di quelle che negli ultimi mesi, sempre più di frequente, accompagnano le mie giornate in ore diurne e notturne. Sento il mio viso infuocato, cerco con frenesia il ventaglio in borsa, quando la donna mi passa davanti ignorandomi. “Buongiorno, preside” – la saluto accennando un sorriso di cortesia nella speranza che lei non abbia la capacità di leggere nel pensiero. Guarda fisso nella mia direzione, ma non mi risponde.

Deborah Cuofano ha la mia stessa “mezza età”, ma sembra mia figlia. Una donna di potere e di successo, bella, disinvolta e soddisfatta. Una così non ha molto a che fare con una persona come me che, dopo anni e anni trascorsi tra “sudate carte”, si accorge, ormai non più giovane e carina, di aver trascorso la parte (forse) migliore della vita a combattere con strani sensi di colpa e inspiegabili complessi d’inferiorità. Una costante sensazione di inadeguatezza mi tormenta dall’asilo (ovvero da che ho memoria), sensazione che – ho poi scoperto – pare abbia a che fare con una vera e propria sindrome. Mi sono sorpresa ogni volta che sono stata apprezzata o elogiata, valorizzata o premiata (addirittura!) per i miei risultati nello studio o nel lavoro.

Nel mio intimo, in queste occasioni ho creduto sempre di non avere meritato veramente o di aver fatto torto a qualcuno (chi lo sa poi a chi?) e per questo ho spesso evitato situazioni che mi facessero sentire tanto a disagio. E ho scelto di volare a bassa quota. Avrei dovuto curarmi, l’avrei certamente fatto se me ne fossi accorta in tempo, anni fa, quando ancora vivevo la fase delle scelte cruciali dell’esistenza, quelle che decidono, più o meno, chi sarai e cosa farai nel mondo. Ora temo sia troppo tardi.

Finalmente lei si accorge di me e mi risponde con finto imbarazzo: “Ah, buongiorno professoressa, non l’avevo proprio vista…”. Sono dunque diventata pure invisibile. “Giovaanniii”- richiama subito dopo l’attenzione del collaboratore scolastico alle mie spalle lasciandomi lì a bocca aperta. Suona nel frattempo la campanella della prima ora. Avvilita, salgo le scale a capo chino per raggiungere la mia classe. Non ricordo più dove devo andare. Mi gira la testa mi sento già stanca. Inizia così una giornata di scuola come tante, di quelle che “Oggi non tengo proprio genio …”.

Arrivo al primo piano, attraverso il lungo corridoio grigio, noto che, come ogni giorno, il pavimento è più opaco di ieri – la paura del Covid si è già dissolta nel nulla lasciando il posto alle precedenti cattive abitudini. Alzo il capo per salutare i colleghi che camminano in fretta verso le loro classi mentre i collaboratori osservano annoiati il passaggio di studenti e docenti. Poi, con la poca energia che mi resta, varco una porta ed entro in classe. Spero che sia quella giusta.

Ed ecco che succede qualcosa che, per quanto quotidiano, mi coglie impreparata: l’allegro coro di “buongiorno” e i sorrisi limpidi e un po’ timorosi di ventotto adolescenti che si alzano rumorosamente in piedi mentre varco la soglia dell’aula, scrutandomi con preoccupata simpatia, mi disarmano. Il solco profondo sulla mia fronte si stende, un sorriso spontaneo addolcisce la mia espressione cupa, dimentico tutto il resto ed esclamo: “Buongiorno a voi, ragazzi, e grazie!” La risposta che mi mancava è ora lì, viva chiara evidente, davanti ai miei occhi. Come ho fatto a non pensarci subito?