New York oggi è molto diversa rispetto a come dev’essere stata negli anni Sessanta. La “giungla di cemento” a cui siamo abituati era già il centro del mondo, ma tra le sue strade si respirava l’aria del cambiamento, della cultura. O meglio, della controcultura, quella che si stava scrivendo con fatica dalle università della California fino a quelle della Francia. C’è un posto però dove tutto sembra essere rimasto intatto, dove non è cambiato nulla. È il Greenwich Village, che prima di ospitare le rivolte di Stonewall e l’appartamento di Carrie Bradshaw, ha visto un giovane Bob Dylan e una (ancora più giovane) Suze Rotolo passeggiare per le sue strade. Prima abbracciati, poi quasi impilati una sull’altro per proteggersi dal freddo, e man mano sempre più distanti. Tra loro, sotto le finestre fitte della Quarta Strada, si stava già insinuando il tempo. Il peso della fama di lui, la voglia di emanciparsi di lei. E, non senza colpe, Joan Baez.
Suze Rotolo e Joan Baez: parlarne oggi
La storia di come Bobby Zimmermann, giovane di origini polacche e lituane del Minnesota, sia arrivato ad essere Bob Dylan ormai la conosciamo bene. Eppure non smette di affascinare, come conferma il successo di A Complete Unknown di James Mangold, in sala dal 23 gennaio, con Timothée Chalamet nel ruolo del cantautore. Il film non offre prospettive inedite né rispetta la realtà in tutto e per tutto, ma è forse uno dei primi ritratti di Dylan in cui viene dato il giusto peso a Joan Baez e Suze Rotolo. Interpretate rispettivamente da Monica Barbaro ed Elle Fanning, le donne che lo hanno accompagnato nella giovinezza sono i personaggi con più forza e vitalità. Muse e maestre che non solo gli hanno ispirato alcuni dei brani più iconici della sua discografia (da Don’t Think Twice, It’s All Right e Boots of Spanish Leather a Ballad in Plain D) ma gli hanno insegnato a lottare, impegnarsi e prendere sul serio l’amore.
Suze Rotolo: «Una scultura di Rodin che prendeva vita»
Figlia di Gioachino e Mary Teresa Rotolo, due attivisti del Partito Comunista Statunitense, Suzanne Elizabeth (detta Suze) aveva origini italiane. Ed è cresciuta, insieme alla sorella Carla, circondata da libri, arte, discussioni e manifestazioni. Anche all’epoca del Maccartismo (il governo di McCarthy, tra il 1947 e il 1958), quando il Partito era violentemente osteggiato, la famiglia Rotolo non ha mai rinunciato a lottare. La loro presenza a tutte le più importanti manifestazioni in città era ormai scontata.
La madre, ex giornalista dell’Unità (fu anche corrispondente dalla Spagna durante la guerra civile), aveva un ruolo importante nel mondo dei sindacati e presto Suze ne afferrò il testimone. A soli 17 anni, quando conobbe Bob, alternava il suo lavoro come pittrice a quello al CORE (il Congress of Racial Equality). E probabilmente fu sempre Mary a insegnarle anche a scrivere, abilità che le consentì di aiutare il giovane Bob con le sue prime canzoni-poesie.
Suze e Bob, l’amore ai tempi della guerra in Vietnam
«Quante notti sono rimasto sveglio a scrivere canzoni per poi farle sentire a Suze chiedendo: “Va bene?”», ha raccontato Dylan. «Sapevo che sua madre era legata ai sindacati e lei si dedicava ai temi dell’uguaglianza e della libertà da molto prima di me. Le facevo controllare le canzoni. Le piacevano tutte». Anche se era nata e cresciuta a New York, Suze non sentiva di appartenervi. Durante gli anni passati al fianco di Dylan si sentì sempre «una corda della sua chitarra», mai una protagonista attiva.
Era al Greenwich Village che andavano quelli come me che sentivano di non appartenere al luogo da cui provenivano. Ero attratta dal Village con la sua storia bohémienne, dove gli scrittori che leggevo e gli artisti a cui mi ispiravo avevano vissuto o erano passati. I loro spiriti mi hanno guidata e indicato la strada.
Suze Rotolo nella sua autobiografia (uscita nel 2008)
Insieme a lui Suze frequentava solo musicisti folk, ma non aveva nessun desiderio di entrare a far parte di quella scena. Per questo quando arrivò per lei la possibilità di passare qualche mese in Italia (a Perugia), malgrado le lamentele di Bob partì. Nel capoluogo umbro Suze trovò non solo la sua identità – come artista e come donna – ma anche il vero amore della sua vita, il montatore cinematografico italiano Enzo Bartoccioli.
Joan Baez, altro che “la situationship”
Sarà per la bellezza (e lo stile) di Monica Barbaro in A Complete Unknown, ma Joan Baez, da musicista folk americana relegata al passato, è diventata un’eroina del web. Su TikTok si moltiplicano le ragazze che si riferiscono a lei come «the other woman», «la prima a vivere una situationship», ma questa lettura rischia di farci perdere la bussola. Il suo tira e molla con Bob Dylan, per quanto artisticamente fertile, non è stato che una parentesi della sua incredibile vita (e opera).
Anche Baez non ha origini americane: il padre era un medico messicano divenuto un ministro metodista, mentre la madre, scozzese, era una professoressa dalle origini nobili. La sua educazione multiculturale l’ha resa sensibile alle battaglie sociali degli anni Sessanta, a cui ha sempre partecipato attivamente. Solo per dare un’idea: nel 1964 Joan si rifiutò di pagare più della metà delle sue tasse per protestare contro le spese militari del governo. Prese parte alle proteste contro il conflitto in Vietnam, partecipò al movimento di libertà di parola in California. Sfruttò il suo successo e la sua influenza per sostenere le cause in cui credeva, creando prima l’Istituto per lo studio della nonviolenza e poi Humanitas, un’organizzazione internazionale per i diritti umani.
Bob e Joan, «I’m not the one you want babe, I’m not the one you need»
Lei, voce da soprano ma anima folk, era già conosciuta quando Bob cominciava a farsi strada tra i protagonisti del mondo della canzone di protesta. Dopo un’esibizione memorabile al Nework Festival nel 1960, ha rubato il cuore a tutti i presenti ed è diventata una delle protagoniste assolute del genere. Gli anni dell’amore tra lei e Bob Dylan, e in cui hanno convissuto, erano quelli nel pieno del suo successo. Dal loro sodalizio artistico lui ha ottenuto l’accettazione nella cerchia ristretta di artisti folk. Un mondo chiuso e per molti versi reazionario, troppo limitante per il genio anarchico del giovane Dylan. Era il mondo di Joan, ma non c’era spazio per entrambi: e lui lo abbandona senza voltarsi indietro, lasciando col cuore spezzato anche Joan. «Non si può incolpare qualcuno per sempre», ha raccontato Baez rivivendo in un’intervista per People quegli anni, «e lo so perché io ci ho davvero provato. Ma ora finalmente ho smesso».
Nel 1968 anche lei è andata avanti, e si è sposata con David Harris, giornalista e attivista Anti-Vietnam che per la sua organizzazione The Resistance (nata per dissuadere i giovani dall’arruolarsi) finì persino in carcere. Lei, dal palco di Woodstock, ne ha denunciato l’ingiusta sorte, poi è volata direttamente ad Hanoi per assistere alla fondazione di Amnesty International. Il loro matrimonio è sopravvissuto alla detenzione di Harris, ma non a lungo e (anche) dal loro divorzio avvenuto nel 1973 ha preso vita Gulf Winds, il suo album più importante (uscito nel 1976).
Suze Rotolo e Joan Baez non sono personaggi secondari
I nomi di Suze e Joan sono stati sballottati qua e là da biografi apatici, giornalisti assetati di notizie e fan curiosi di cogliere qualcuna delle ispirazioni di Dylan. Ma per la realizzazione di A Complete Unknown, James Mangold ha insistito per rendere Joan e Bob, gli unici protagonisti ancora in vita (Suze è morta nel 2011), liberi di guidarlo e correggerlo. Tra Baez e Barbero c’è stato un lungo scambio. La cantante ha apprezzato di essere stata finalmente ritratta come l’artista controcorrente e lo spirito libero che era (e che è: uno dei suoi ultimi singoli, Nasty Man, è dedicato a Donald Trump).
In vita anche Suze ha avuto da ridire riguardo a precedenti trasposizioni di quegli anni, in particolare The Bob Dylan Encyclopedia di Michael Grey. Ma è sempre stata gelosa della sua privacy e si è rifiutata a lungo di raccontare i dettagli dei suoi anni bohemien al Greenwich Village. Ha rotto il suo silenzio solo nel 2008, pubblicando la sua autobiografia A Freewheelin’ Time: A Memoir of Greenwich Village in the Sixties, e Bob – che fino al 1985 ha continuato a parlare di lei – l’ha voluta omaggiare un’ultima volta.
Per il film sulla sua vita non ha dato quasi nessuna dritta (non ha nemmeno incontrato Timothée), ma su una cosa si è imposto: il nome di Suze non appare mai, viene sostituito con il fittizio Sylvie Russo. Un tentativo di proteggerla, anche da morta, da quella fama che non ha mai voluto e dalla quale è sempre fuggita. E di lasciare che l’unica versione approvata della sua storia rimanesse quella scritta da lei.