Veronica Yoko Plebani è un’atleta paralimpica italiana che nell’aprile 2011 è stata colpita da una meningite batterica fulminante… No. Questa storia non inizierà così. L’ho promesso a me stessa dopo aver intervistato Veronica, al telefono, un pomeriggio rovente di metà luglio. E dopo aver letto un suo commento al suo romanzo Fiori affamati di vita: «Questo libro è la mia storia, ma non la storia realmente accaduta, quella che si conosce e che viene spesso usata per presentarmi dando le coordinate di chi sono, cosa ho fatto, da dove arrivo». Anche io, con questo mio breve racconto, vorrei darvi le coordinate di chi è Veronica Yoko Plebani, ma vorrei farlo – rubandole le parole – “percorrendo strade sterrate”. «Quelle che mi auguro sempre di trovare, in mezzo a tante esperienze omologate, preconfezionate, già pronte all’uso», come ha detto lei.

Interessante figlia del sole

Veronica mi chiama dall’auto, di ritorno dal centro protesi. «È un continuo avanti e indietro da lì, nell’ultima settimana prima della partenza per Parigi. Dobbiamo definire tutto il necessario, e io intanto continuo ad allenarmi!». Purtroppo non posso vederne i lineamenti del viso (e relative emozioni tradite), ma la voce che sento dall’altra parte del telefono mi basta per decidere che sì, il nome Yoko le si addice. Lo ha scelto la mamma, che pratica il buddismo, perché in giapponese significa “bambina solare“ o “figlia del sole”. E ottengo la mia conferma definitiva quando Veronica, raccontandomi dell’intenso periodo pre-partenza per le Paralimpiadi, tra tutti gli aggettivi possibili sceglie “interessante” per descriverlo.

Veronica Yoko Plebani alle Paralimpiadi di Parigi 2024

«Quella di Parigi è la mia quarta Paralimpiade. Tutte le volte che si avvicina questo grande appuntamento, penso di sapere come mi sento. E invece, ogni volta è diverso. Ci sono così tante emozioni travolgenti che si sovrappongono che diventa davvero difficile definirsi e definire questo periodo».

Il tempo che precede un’Olimpiade è unico, a prescindere dalle aspettative sportive, perché si comprende di star andando incontro a un evento straordinario

Dopo lo snowboard a Sochi nel 2014, la canoa a Rio nel 2016 e il triathlon a Tokyo nel 2020 – in cui ha vinto la medaglia di bronzo – Veronica sarà tra le atlete che rappresenteranno l’Italia ai Giochi Paralimpici di Parigi (dal 28 agosto all’8 settembre 2024). Gareggerà nelle tre discipline del triathlon: corsa, ciclismo e nuoto. «È la prima volta che torno a gareggiare in una disciplina già affrontata. Potrebbe sembrare qualcosa di positivo, ma a me piace anche cambiare. Non avere aspettative e non conoscere quello che ti aspetta aiuta, in un certo senso, a proseguire con il freno a mano un po’ meno tirato. Ad ogni modo, spero di affrontare la gara serenamente, divertendomi e riuscendo a dimostrare tutto il lavoro fatto in questi anni. È folle, no?, se ci pensi: ci prepariamo anni per un’ora!».

E se la soluzione fosse nel problema?

È vero. A pensarci, risulta piuttosto folle che un’ora – se non una manciata di minuti o secondi – determini il risultato di un allenamento durato anni. Eppure, è proprio nella somma di quegli attimi in sella, in acqua e in pista che nasce un benessere profondo, una sfida galvanizzante lanciata in primis verso se stessi, che spinge sempre un po’ più in là, che dà un senso alla fatica. «Sono sempre stata una ragazzina molto attiva, curiosa e con un grande interesse per il funzionamento del corpo e per il movimento in generale», mi racconta Veronica dall’altro capo del telefono. «Quando poi mi sono ammalata, come spesso accade alle persone che si trovano ad affrontare una disabilità, è stato immediato e d’aiuto trovare una risposta nel problema. E cioè, nel corpo».

Riuscire a tornare alla vita attraverso lo sport, dopo il momento di maggiore difficoltà, è stato così potente da creare quasi dipendenza. Perché mi ha fatto rendere conto di quanto ancora potessi fare, con risultati diretti, visibili, tangibili

Fendere l’acqua e passarci attraverso, esercitare forza sui pedali per creare movimenti rotatori che ti portano lontano, sfrecciare verso il rettilineo d’arrivo. 750 metri di nuoto, 20 chilometri di bicicletta, 5 di corsa. Risultati diretti, visibili e tangibili, appunto.

Tutto il potere dello sport

«Nel momento in cui ciò che conoscevo del mio corpo se n’è andato – continua Veronica – ho perso l’immaginario delle mie possibilità, non riuscivo più a pensarmi nello spazio e nel movimento. Quando poi ho capito quanto ancora potessi fare, e persino ad alti livelli, è stato incredibile. Mi ha aiutata a riprendere in mano la vita in tutti i suoi aspetti». Lo sport è straordinario anche per questo, ci mostra le capacità del nostro corpo. «Nella mia vita parallela, dove non esiste la malattia, non sarei mai diventata un’atleta agonista. Non avrei mai scoperto di saper fare così tante cose. Non avrei mai potuto definirmi brava nella conoscenza del mio corpo e del suo movimento. Oltre alle tre discipline che porterò alle Paralimpiadi, in questi anni ho provato una quantità infinita di sport, e la facilità con cui riesco a sperimentare tante azioni e tanti tipi di movimento differenti è la mia soddisfazione più grande. Più delle medaglie».

La libertà di essere se stessi, anche durante la malattia

Dopo tanti anni di sport, Veronica ancora si mette alla prova. Un anno fa, per esempio, per la prima volta ha corso sul tapis roulant con le sue protesi: un’azione potente, che le ha dato «un altro centimetro di indipendenza e di fiducia nelle mie capacità». Ma centimetro più centimetro fa metri di consapevolezza, soprattutto se a un certo punto si è dovuti ripartire da (quasi) zero. «Mi fa sempre strano parlare della malattia perché, se penso a tutto quello che ho fatto negli ultimi tredici anni, è stata un momento piccolo con un impatto grande sul mio percorso», mi spiega Yoko al telefono.

Si dice sempre che la malattia è un momento segnante, che cambia totalmente la persona che sei, che spazza via “quella di prima”

«Non sono d’accordo, almeno non per forza. Nel mio caso, per esempio, non ci sono un prima e un dopo. Anzi, ciò che mi ha aiutato è stato proprio percepirmi come la stessa di sempre. Fare i conti con una malattia che stravolge il tuo corpo a quindici anni non è sicuramente facile, ma sapere che si è se stessi anche nei momenti di difficoltà e di cambiamento può essere d’aiuto». Da quel giorno, lo sport e una rete di persone speciali hanno sostenuto Veronica, e l’hanno aiutata a scorgere tutte le possibilità che il suo corpo ancora le poteva regalare.

Di corpo, bellezza e fiori affamati di vita

«Il mio collo lungo, la sagoma del viso. Da sotto il naso a sinistra si allarga una cicatrice fresca che spunta sulla guancia e torna a nascondersi, poi cola giù dalle spalle e dalle cosce fino alle estremità fasciate. Conosco già il paesaggio irregolare della mia pelle. Solo adesso che me lo vedo addosso mi rendo conto che è mio, sono io. Trattengo il respiro, fisso lo sguardo e immagino il mio corpo fuori da qui, nei miei posti, nelle cose che faccio, negli occhi di chi mi vede e nel mondo. Capiranno che sono ancora io?».

Queste parole sono tratte da Fiori affamati di vita (Mondadori, 2020), il romanzo di Veronica Yoko Plebani che racconta la sua vita, sospeso tra realtà e finzione, per restituire ciò che il titolo custodisce: una grandissima fame di vita e di bellezza, quella che «spunta dove meno ci aspettiamo, come il fiore di una primavera fuori stagione». Il romanzo infatti racconta anche del risveglio in un corpo diverso, che non ha dato il preavviso, una sera d’aprile. «Il mio corpo sono io, e non una cosa esterna da guardare, giudicare, capire. La mia persona gli è perfettamente aderente. Dunque tutto ciò che di bello provo, che emotivamente sento, mi fa stare bene. Il mio corpo è parte di questo benessere, di questa accettazione, di questa libertà. E di questa bellezza, intesa come qualcosa di ben più ampio di uno standard estetico».

Veronica Yoko Plebani e la sensibilizzazione all’inclusività

Normalizzare è uno dei verbi preferiti di Veronica. Eccezionale, straordinaria & Co. sono invece gli aggettivi che non vorrebbe le fossero associati. Questione, dice, di un problema culturale ampio che purtroppo non riguarda solo gli atleti.

Per raccontare ciò che è lontano da noi tendiamo a estremizzarlo, finendo per dipingerlo in tutti i modi fuorché com’è davvero: normale. Sapevi che il 16% della popolazione mondiale ha una disabilità?

«Sono due le narrazioni sbagliate. Da un lato, c’è la storia straordinaria e incredibile dell’atleta paralimpico inarrivabile. Dall’altro, la storia pietistica di chi, per colpa del contesto, non riesce a inserirsi. Entrambe le modalità di racconto non permettono di riconoscersi, di sentirsi rappresentati e veramente inclusi in una socialità normale». Continua Veronica: «Le storie paralimpiche sono sicuramente importanti, perché negli anni hanno permesso di mostrare la disabilità là dove non si vedeva. Tuttavia, sarebbe arrivato il momento di andare anche oltre la gara, oltre i paratleti, e di raggiungere la quotidianità di tutte le persone con disabilità. Domandandosi: come vivono la vita, loro?».

Colgo l’occasione datomi da quel punto interrogativo. Guardo l’orario e decido di impiegare gli ultimi minuti della nostra telefonata per chiedere a Veronica di parlarmi un po’ di lei, di quelle sue giornate in cui lo sport non è protagonista. «Mi piace il mondo della musica e anche quello del cinema. In generale amo condividere esperienze di scoperta con le persone a cui voglio bene: oltre ai miei gatti, questo è tutto ciò che muove il mio tempo libero». Ed è proprio qui, in questo specifico passaggio, poco prima che Veronica mi salutasse dall’altro capo del telefono, che ho pensato a come avrei potuto (e dovuto) aprire e chiudere questo mio racconto. Forse, pensai più tardi quella sera, non c’è altro modo che questo. Rubarle le parole, di nuovo, proprio come in apertura: «Amarsi è un lavoro creativo che va alimentato ogni minuto, non sempre facile ma necessario. L’unica certezza che possiamo avere in tutta questa grande instabilità siamo noi stessi, in tutto ciò che siamo».