Il volto è quello, che tutti ricordiamo, del Freddo di Romanzo criminale – La serie. La voce è impostata, profonda, di chi ha lavorato a lungo in teatro. Ma Vinicio Marchioni non è qui in veste di attore. La persona un po’ sorpresa dal clamore che lo circonda al Salone del Libro di Torino è uno scrittore al debutto con un romanzo bello, sincero, tenero e feroce al tempo stesso: Tre notti (Rizzoli). Sulla copertina il viso di un ragazzo in bianco e nero è mezzo coperto dal fumo di una sigaretta. È un libro, mi racconta, «che ha avuto una gestazione lunga, anche se l’urgenza era forte».
Vinicio Marchioni versione scrittore
«Quando avevo 18 anni, volevo fare lo scrittore. Mi ero iscritto alla facoltà di Lettere» esordisce per farmi capire che l’idea di darsi alla narrativa non è stata un caso. «Poi ho cominciato a studiare storia del cinema e storia del teatro. Mi sono innamorato di quel mondo lì e, per curiosità e approfondimento, sono andato a fare uno stage in una scuola di teatro. Mi ero detto: “Frequento per una settimana”. La settimana è diventata un mese, poi 3, poi 3 anni: a quel punto ho cominciato a fare l’attore. Però sempre con l’istinto e la motivazione di raccontare storie».
La trama di Tre notti
Ed eccola qui, la sua storia rimasta in un cassetto della mente per tanto tempo: Andrea, 15 anni, va in frantumi il 29 novembre 1991, quando il padre sta per morire e lui rimane con il suo bagaglio di dolore, rabbia, spaesamento, frustrazione, complicità, amicizia che l’adolescenza si porta dietro. Tutto all’ennesima potenza. Il romanzo narra dei 3 giorni in cui scappa di casa cercando di dare un senso a quella fine. Per recuperare pezzi di vita del padre e anche di se stesso. Un viaggio che lo spinge a porsi domande, fare incontri, ritrovare ricordi, crescere.
Autobiografia: Vinicio Marchioni e il papà
Vinicio Marchioni è uno che legge tanto, scopro. «E la drammaturgia mi ha permesso di studiare i grandi testi e i grandi autori. È stata un motivo per ragionare sulla letteratura ed è diventata un’indagine sull’essere umano». Gli appunti ci sono sempre stati, «ho sempre buttato giù note, impressioni», e mi rivela che ha centinaia di diari e quadernetti nel suo studio. È un romanzo un po’ autobiografico? Gli chiedo. «Ho riaperto alcuni diari facendo un trasloco 12 anni fa e ho riletto di questo ragazzetto che aveva perso suo padre. Ero io». Allora suo papà aveva 39 anni, lui 14.
«Però li ho letti con la distanza del tempo. Ricordo la sensazione fisica della grande tenerezza che mi fece quel ragazzo. Quasi come se stessi leggendo di un’altra vita. È lì che ho pensato che sarebbe stato molto bello rientrare da adulto nell’adolescenza, in quei giorni così drammatici, così duri, pieni di dolore, di attraversamenti amorosi, di Sturm und Drang esistenziale. Lì è iniziata l’idea di questo romanzo. Però stiamo parlando di 12 anni fa». E quindi? Voglio sapere. «Ho cominciato a buttare giù delle pagine, ma non ero pronto. Ero molto ingenuo, avevo una penna “amatoriale”. Questi anni mi sono serviti ancora di più a prendere le distanze da quel dolore».
«Chi sei tu se tuo padre non ti vede?»
C’è una frase bellissima nel romanzo – «Chi sei tu se tuo padre non ti vede?» – che racchiude il senso del rapporto che un figlio ha con chi l’ha creato. E in quel grappolo di parole c’è anche l’idea di formarsi un’identità, che è un passaggio fondamentale a 15 anni. E poi c’è la fratellanza, uomini che possono sembrare “grezzi” ma che riescono a fare rete intorno a questo ragazzo smarrito.
«Mi fa piacere che abbia notato questa cosa» mi dice abbassando un po’ la testa. «Volevo raccontare il rapporto padre-figlio attraverso l’assenza del padre. Come attore impari a stare dentro alle cose, non a guardarle da fuori o a descriverle. Penso che quando perdi qualcuno di fondamentale, madre, padre o qualsiasi persona che appartenga a te in qualche modo, a qualunque età, in quelle 48 o 72 ore nessuno di noi agisce in piena coscienza: è una cosa che ti sposta talmente tanto che ti priva della possibilità di agire. Sei agito dalla vita». Così ha descritto la vita che scorre nonostante tutto. Con personaggi che sono ognuno nell’occhio del ciclone. «C’è tanta umanità: semplice, grezza, diretta, maschile». Descrive anche i lati peggiori del patriarcato, del maschio di quegli anni. «Che, purtroppo, non penso sia cambiato tantissimo su alcune cose».
I figli non ci ascoltano, ci guardano
Dante, il padre del romanzo, è immobile e si sta spegnendo davanti al caminetto: sono le parole e i discorsi degli altri, i ricordi, i flashback che lo fanno vivere. «È quello che ha visto questo figlio di suo padre» mi spiega. «Che cosa è rimasto delle sue azioni. Dei grandi casini che ha fatto, di come era da giovane. Perché poi la vita, io penso, corrompe un po’ tutti». Quella frase lì – “Chi sei tu se tuo padre non ti vede?”- è vera anche al contrario, mi dice. «Chi è tuo padre se tu non lo guardi?. Io ho due figli, di 11 e 12 anni, e da adulti ci dimentichiamo con molta facilità che i figli ci guardano. E fanno quello che noi facciamo, non quello che gli diciamo. Le nostre azioni, inconsapevoli del loro sguardo, si imprimono dentro alla loro memoria». Per questo Andrea, il ragazzino del libro, è alla ricerca di qualcuno che gli dica chi era suo padre. E più gliene parlano, più lui si rende conto che non ne sa niente. «È una cosa che un po’ tutti noi scopriamo, indipendentemente dall’età in cui un genitore muore, ma dopo».
Dal romanzo al cinema
Come primo libro è bello impegnativo. «Mi sono formato con gli scritti di Jean Genet, che in un piccolo saggio che si intitola Il funambolo diceva: se il funambolo inizia il primo giorno mettendo il filo a 30 centimetri dal suolo è meglio che smetta subito». A proposito di artisti francesi, gli faccio notare come la storia di Andrea mi abbia un po’ ricordato un film di François Truffaut. «Vero. Un retropensiero è a I 400 colpi. Credo che l’adolescenza sia un periodo tremendo, difficile, controverso. Poi ci sono tante altre fasi complicate, perché è sempre difficile imparare a vivere. Però quell’essere “tra” mi piace molto e mi riferisco proprio al finale di I 400 colpi: ci sono la terra, i grandi che ti inseguono, il mare. La vita o la morte stanno lì e tu devi decidere che fare. Intanto corri, però. A me interessava raccontare quella corsa».
I progetti futuri di Vinicio Marchioni
E dal romanzo siamo passati al cinema, inevitabilmente, perché la chiacchierata con Vinicio Marchioni mi dimostra quanta poca distanza ci sia a volte fra le due cose. Lo saluto e gli chiedo quando lo rivedremo sullo schermo, dopo C’è ancora domani di Paola Cortellesi. «Sono a Napoli sul set del nuovo film di Antonio Capuano, insieme a Teresa Saponangelo, e sono felicissimo. Parla di una coppia che sta affrontando la separazione e l’affidamento del figlio». Sempre Sturm und Drang, gli dico. Ride: «Ma no, ho fatto pure delle commedie, però con questa faccia evidentemente…».