Mi capita spesso di partecipare a convegni sui disordini alimentari e con molto stupore sento descrivere questi pazienti come persone misteriose, anaffettive, scostanti, inaffidabili; hanno invece una carica emotiva molto ricca, una ricchezza sconosciuta anche a loro stesse, che può emergere ed essere incanalata a patto che non si sentano giudicate, ma accolte, comprese, in poche parole aiutate a liberarsi dalla paura di comunicare le proprie emozioni.
Per loro l’ABA è diventata un movimento dove si sentono riconosciute come persone, rispettate, messe nella condizione ideale di essere loro stesse, nonostante i gravi disagi che hanno bloccato la loro crescita emotiva.
Una persona su tre ammette di non aver mai potuto esprimere i propri disagi prima di rivolgersi a noi, di non essere capita, di essere giudicata una persona inadeguata, forse perché crede di avere un disagio moralmente attaccabile, che viene vissuto quindi con profonda vergogna.
Questa difficoltà nasce probabilmente perché gli altri non sanno accettare il dolore che non si vede: una gamba fratturata è un dolore condivisibile da tutti; è evidente, provoca compassione, così come l’asma, l’ulcera, la cefalea.
Sono tutte patologie che si curano con farmaci e la cui prognosi è limitata nel tempo, ma soprattutto sono disagi che non coinvolgono la psiche, questo buco nero difficile da visitare, di fronte al quale persino il medico si spaventa.
Se l’altro intuisce che nella bulimia e nell’anoressia c’è un aspetto depressivo, il suo timore diventa ancora più grande, perché ognuno deve fare i conti con i propri aspetti depressivi, i propri lutti non elaborati.
L’anoressia evoca lo spettro della morte, la bulimia respinge l’altro.
Tuttavia, al di là di ciò che appare, queste persone, nonostante lancino messaggi contraddittori, hanno bisogno di un aiuto. La persona anoressica dice di non avere bisogno di niente e di nessuno, di non sentire né freddo, né fame, né stanchezza: si è costruita faticosamente un mondo proprio, per convincersi di aver trovato una propria autonomia.
Se noi la prendiamo in parola, lei sarà perduta, saremo caduti nel tranello che tende anche a se stessa, per avere l’illusione di non sentire il disagio che le sue emozioni le provocano.
Mi sembra quindi che, se da una parte è indispensabile riconoscere il suo dolore, dall’altra è anche utile spiegare, ma occorre esserne convinti, che quello che appare (la magrezza, il vomito) non è altro che la punta dell’iceberg, di tutta una serie di disagi che hanno radici lontane.
Fabiola De Clercq – Presidente e Fondatore ABA