«Attenta agli svenimenti, cara Laura, impazzisci tutte le volte che vuoi, ma non svenire mai». Così Jane Austen, nata nel 1775, scriveva nel 1790, all’età di 15 anni.
Era la penultima figlia di un pastore protestante, cresciuta con sei fratelli e una sorella, Cassandra. La frase, così deliziosamente sarcastica, appartiene a un racconto definito da Virginia Woolf «stupefacente e per niente puerile», intitolato Amore e amicizia. Lo scrisse, la piccola Jane, per divertire la sua numerosa famiglia e veniva letto ad alta voce la sera.
C’era già tutta lei, in quella frase. C’era già, in quel perfetto mélange di umorismo e scrupolosa conoscenza del mondo femminile, l’autrice di Ragione e Sentimento, Orgoglio e Pregiudizio, Mansfield Park, Emma, L’abbazia di Northanger e Persuasione.
Sei grandi romanzi scritti fra i 20 e i 30 anni da una taciturna zitella, vissuta per lo più in casa, con il padre, la madre e la sorella, nella campagna inglese, e pubblicati fra il 1811 e il 1817: i primi firmati “by a Lady”, cioè anonimi, gli ultimi due con il nome in copertina, ma postumi.
È morta a 42 anni, Jane Austen, quando stava per diventare famosa. Non sapremmo niente di lei, se non avesse scritto parecchie lettere a sua sorella. Sappiamo poco di lei, perché sua sorella decise di distruggere la maggior parte di quelle lettere: finalmente, post mortem, Jane era stata apprezzata e riconosciuta, stava per essere celebrata. E Cassandra ha avuto paura che il mondo ficcasse il naso nella sua intimità. Non importa. Sappiamo quanto basta.
Era piccolo e chiuso, l’ambiente in cui Jane è cresciuta
E quell’ambiente è il teatro di tutte le sue storie.
«Tre o quattro famiglie domiciliate in un paesino di campagna sono la materia ideale per un romanzo» scrive nel 1814 a sua nipote. Fatale limitazione o punto di forza? Punto di forza. Ve ne accorgerete leggendo.
Jane Austen prende questo universo chiuso, fiorito di pregiudizi e di convenienze, organizzato secondo le regole di un galateo apparentemente incontestabile, intriso da snobismi e opportunismi, e lo fa attraversare da giovani donne e da donne mature che incontrano uomini giovani e vecchi.
Costringe i suoi personaggi in quella cornice e li osserva mentre cercano di liberarsi o di uniformarsi alle rigide regole dell’epoca. Protagoniste assolute sono le femmine della specie. Ragazze che vogliono innamorarsi. Ragazze che devono sposarsi. Ragazze che dovrebbero dimostrare moderazione e buon senso e invece si concedono spontaneità e passione e per questo vengono discriminate e stanno per perdere, ma alla fine vincono. E si sposano.
L’attenzione, la perspicacia applicata alla relazione fra uomini e donne, e alla relazione delle donne fra loro e con se stesse, trasforma ogni storia particolare in una storia universale. Non c’è niente di datato, di superato. Siamo all’inizio dell’Ottocento e siamo nel Duemila. Lo scandaglio della letteratura scende profondo nell’animo umano. E ci ritroviamo, in Emma, in Elizabeth, in Fanny, in Elinor, in Anne.
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Quasi non ce ne rendiamo conto, di aderire a quel tempo lontano. Jane Austen ci porta con lei, con leggerezza e determinazione. Il suo stile è fitto di dialoghi, concisi, brillanti e perfettamente adeguati a riprodurre l’eterno presente della conversazione. Le descrizioni sono essenziali e rarefatte. L’enfasi è sempre sui caratteri. E l’ironia non risparmia nessuno, né i buoni né i cattivi, non gli uomini, ma certo neanche le donne.
La vita quotidiana, con le sue modeste delizie e i suoi banali dispiaceri, entra da protagonista sulla scena della letteratura
La Austen vive e scrive al tempo delle guerre napoleoniche, ma non c’è una battaglia nei suoi libri. La guerra è un rumore lontano, un luogo da cui qualcuno torna e qualcuno non torna. Quello che conta è il corpo a corpo con la vita. È alle insidie delle feste e dei matrimoni negati o combinati che devono sopravvivere Emma, Elizabeth, Fanny e tutte le altre.
E mentre guardiamo Jane Austen combattere, cercando di portare in salvo la loro innocenza, ci rendiamo conto che, fra il cicaleccio mondano e la cerimonia del tè, qualcuno ci sta raccontando la lotta di tutte noi, per essere equanimi, per censurare le tentazioni peggiori, per non farci sporcare dal fango in cui siamo costrette a camminare, per adattarci agli altri e agli anni, per essere ogni giorno migliori di quanto eravamo ieri.
Se non fosse morta giovane, se non fosse vissuta in un’oscura canonica, se non fosse stata povera, se non fosse stata così silenziosa e modesta e difforme dal modello di intellettuale vincente (all’epoca sempre di genere maschile), sarebbe stata “l’antesignana di Proust” (come scrisse Virgina Woolf), ma non importa.
È rimasta, per tutta la vita, seduta nell’angolino di un salotto, a guardare gli altri ballare. A descriverli con indulgenza e ferocia. A raccontarceli, con la meraviglia dei poeti.