Innanzitutto sfatiamo il mito che il “Papilloma” si trasmetta esclusivamente ed essenzialmente attraverso rapporti sessuali completi e penetrazione: è vero che si tratta dei casi più diffusi, ma è pur considerevole la percentuale di donne che contrae il virus attraverso il contatto fisico (lacerazioni, tagli e abrasioni della pelle) oppure il sesso orale. Ecco perché l’uso del profilattico, pur proteggendo da molte malattie a trasmissione sessuale, non difende totalmente dall’HPV.

 

“C’è un alto picco di incidenza dell’infezione subito dopo i primi rapporti sessuali, soprattutto in età giovanile, quando l’epitelio che riveste il collo dell’utero o cervice uterina, già fisiologicamente sottoposto a rimaneggiamenti maturativi, va incontro più facilmente a microtraumatismi e quindi è più aggredibile dal virus”, spiega la dottoressa Rosa De Vincenzo, ginecologa dell’Università Cattolica, che sottolinea come occorra riconoscere che “qualsiasi rapporto vaginale, anale o orale, soprattutto non protetto, è potenzialmente a rischio per infezioni sessualmente trasmissibili. Il virus per fortuna non sopravvive al di fuori delle cellule e questo spiega perché la possibilità di trasmissione non sessuale sia estremamente bassa, sia per autoinoculazione, sia attraverso oggetti, strumenti o indumenti intimi”.

 

Sebbene nella maggior parte dei casi si tratti di una semplice fase transitoria, priva di sintomi evidenti o preoccupanti e con risoluzioni spontanee, talvolta si manifesta anche attraverso lesioni benigne e, in alcuni casi, persino attraverso l’insorgenza di forme tumorali come ad esempio il più conosciuto tumore della cervice uterina, che oggi è l’unica neoplasia riconosciuta come totalmente riconducibile all’infezione: tra più di 120 distinti ceppi di HPV, solo 12 sono ad alto rischio.

 

“È indispensabile fare una distinzione tra contagio (il primo contatto con il virus che può non sfociare in una infezione stabile e persistente); infezione persistente (condizione indispensabile perché il virus produca effetti sul nostro corpo); malattia ovvero manifestazioni cliniche (benigne, a rischio o maligne) causate dall’HPV”, continua la ginecologa.

 

Vi starete chiedendo quindi quali siano i sintomi causati da questo virus: purtroppo a questa domanda non esiste una sola risposta perché dipende dal sierotipo di virus infettante e dalle lesioni che si sviluppano in seguito alla contrazione di quest’ultimo.

“Purtroppo molto spesso l’infezione è asintomatica e il riscontro avviene in modo occasionale ad una visita ginecologica di screening o di controllo. A volte l’HPV può facilitare le sovrainfezioni vulvo-vaginali dando sintomi generici ma aspecifici di vaginite quali bruciore, dolore, lievi perdite vaginali-leucorrea, prurito o irritazione cutanea. Occorre poi tenere presente che i cosiddetti genotipi virali a basso rischio sono responsabili di alcune fastidiose manifestazioni genitali che ancorchè di natura benigna sono assai sgradevoli e fastidiose. Sono i condilomi, cioè le verruche genitali, escrescenze carnose (a livello vulvare, introito vaginale, perianale) che possono assumere varie forme, dimensioni ed aspetto, apprezzabili anche al tatto e ad occhio nudo, e che possono procurare prurito persistente”, conferma la dottoressa.

 

Inutile sottolineare quanto la prevenzione rispetto all’HPV incida nella vita di una donna. “Sarebbe importante rafforzare le campagne di educazione alla salute per aumentare la consapevolezza sui fattori di rischio e gli stili di vita, sull’importanza della prevenzione. Considerando l’importanza dell’utilizzo di moderni strumenti comunicativi ed informativi, sarebbe auspicabile un maggior attivismo delle istituzioni e società scientifiche sui social media capaci di fornire messaggi più chiari, completi, concordanti e scientificamente validati sulla storia naturale dell’infezione e sulle modalità di prevenzione, e intervenire laddove i contenuti sono invece fuorvianti”, chiarisce la Dottoressa De Vincenzo.

 

Se parliamo di prevenzione secondaria, dovete sapere che per individuare eventuali lesioni esistono due efficaci strumenti di diagnosi e uno è il Pap-Test. Questo esame riesce, in oltre il 70% dei casi, a diagnosticare il tumore della cervice uterina in tempo. Si tratta di un semplice test che avviene durante una normale visita ginecologica: vengono prelevate alcune cellule (e va ripetuto ogni tre anni) ed è un programma di screening ormai ampiamente consolidato che nel nostro Paese include tutte le donne dai 25 ai 65 anni.

 

La seconda possibilità di diagnosi ci viene fornita invece dalla ricerca del Dna dell’HPV, esame in grado di riscontrare la presenza del virus responsabile dell’insorgenza del tumore nei tessuti della cervice e che, rispetto al Pap-Test, consente di individuare le donne a rischio con maggiore anticipo e permette agli specialisti di effettuare tutti i controlli necessari per anticipare eventuali anomalie.

 

“L’identificazione della lesione pre-tumorale ed il suo appropriato trattamento consente il più delle volte di interrompere il progredire della lesione verso il cancro. Oggi il trattamento più utilizzato nelle gestione delle lesioni precancerose della cervice uterina è la LEEP, cioè la procedura di escissione elettrochirurgica-conizzazione con ansa diatermica, un trattamento conservativo eseguibile in ambulatorio a guida colposcopica o, a volte, in day surgery”, sottolinea l’esperta.

 

Concludendo: in Italia abbiamo ottime armi di prevenzione e validi strumenti diagnostici. Informarsi resta quindi l’unico mezzo per proteggersi e difendersi dal virus ma un atteggiamento di allarmismo e terrorismo non aiuta.

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